FAMIGLIA POERIO
Famiglia
patrizia di Taverna, presente in Calabria dal secolo XIII.
Al contrario
delle altre fin qui riportate, della famiglia Poerio vi sono abbastanza dati per
ricostruirne le vicende, specie su quella del ramo belcastrese.
Fu feudataria di
Belcastro, con il titolo di barone, dall’8 aprile 1715 fino all’eversione della
feudalità (1806), salvo una breve parentesi (1803-1809) durante la quale la
baronia fu data in affitto ad Antonio Cirillo di Taverna.
Il ramo
catanzarese, invece, ebbe le baronie di Cardeto e di Feroleto.
Nel 1588 entrò
nell'Ordine di Malta con Orazio e alcuni suoi appartenenti furono Cavalieri di
s. Giacomo con Carlo, Francesco e Girolamo. Si imparentò ripetutamente con i
Ferrari, i Marincola, i Toscano e i de Nobile.
A Belcastro i
Poerio furono particolarmente legati e per lungo tempo.
I primi rapporti
con Belcastro risalgono al 13 agosto 1500 con Andrea il quale acquistò dalla
contessa Costanza d’Avalos il feudo rustico di Scarpa, dove si succedettero
Alfonso e poi il figlio di questi Andrea a cui la contessa Costanza, il 13
agosto 1520, confermava il diritto ereditario per i suoi discendenti. Fino
all’anno 1592 risultava feudatario di Scarpa Giovan Vincenzo Poerio che condusse
la famiglia a vivere stabilmente a Belcastro, dove, nel 1603, figurava tra gli
eletti dei nobili.
Giovan Angelo
Poerio acquistava, nel 1648, da Carlo Mannarino di Petilia Policastro, che aveva
sposato una Poerio, la quarta parte del feudo di Magliacane.
Proprietaria,
ormai, di diversi fondi terrieri, intorno al 1704, in un sito di pertinenza
della famiglia, fu fondato da coloni provenienti dalla vicina provincia di
Cosenza un casale cui fu dato il nome di S. Giovanni della Croce, tramutato poi
in Cerva.
Il l 9 agosto
1714 il duca di Belcastro Fabio Caracciolo, “bisognando per tali ed altre cause
la somma di docati cinque milia … concesse in affitto ad esso Signor don
Francesco [Poerio] la suddetta terra [di Belcastro] con suoi Casali per anni
quattro continui incipiendi dal primo giorno del prossimo entrante mese di
Settembre del corrente anno mille sette cento e quattordici avanti, per docati
mille quattro cento cinquanta l’anno con più patti e dichiarazioni”.
Francesco
Poerio, figlio di Cesare e Lucrezia Pallone, era nipote di Giovan Angerlo Poerio
compratore della quarta parte di Magliacane. Era “Cavaliere dell’Abito di San
Giacomo della Città di Taverna degente in questa [città] di Catanzaro” e
prendeva in affitto le terre del ducato di Belcastro, al termine dei quali si
impegnava ad acquistarle con il titolo di barone ad un “prezzo di Ducati
cinquantatremila e loro interesse”. Francesco, il 3 maggio 1710, aveva sposato
Isabella Poerio, detta Belluccia. Dalla loro unione erano nati sei figli.
Lucrezia, sposa una prima volta (1708) ad Annibale Poerio di Andrea ed una
seconda volta (1712) a Ferdinando de Nobili, barone di Magliacane. Lucrezia morì
l’8 maggio 1724. La seconda figlia Cecilia, detta Cecia, sposò il barone
Ferdinando de Nobili alla morte della sorella Lucrezia. Il terzogenito Alfonso
premorì al padre. La quarta figlia Cilla rimase nubile. Rosa sposò, nel
1712, il cugino Alfonso Poerio, barone di Stalettì e dalla loro unione nacque
una figlia di nome Giovanna che andò sposa, nel 1749, al nobile catanzarese
Ignazio Maiorana. Ultimo figlio di Francesco e Belluccia Poerio fu Vincenzo che
morì in giovane età. Il barone Francesco, però, non fece intestare la baronia a
se stesso ma a suo nipote e genero Alfonso,
marito di Rosa. Infatti, l’8 aprile 1715, il duca Carlo Caracciolo chiedeva il
regio assenso alla vendita, fatta il 9 agosto dell’anno precedente, “a beneficio
di D. Alfonso Poerio, figlio primogenito di D. Girolamo” e barone di Stalettì.
La baronessa
Rosa Poerio, moglie di Alfonso, morì prima del 1721, poiché, da alcuni acquisti
di terreni operati da Alfonso proprio in quell’anno, la Poerio non vi è citata.
Infatti
Alfonso, il 24 aprile 1721, acquistava dalla famiglia Cristiani di Catanzaro,
dove si era trasferita da Belcastro, i seguenti terreni: da Rocco Cristiani 100
salmate in Marina di Belcastro, località Lo Cino, consistenti in 9
sozze (appezzamenti) dette S. Antonio, Marinella, del Tavoliere,
Marinella superiore, Pezzotti, Col'Antonio, Selle,
Felicetto e Martinello con vigna; in territorio di Cropani un altro
terreno detto la Sozza grande.
Da Giovanni Giacinto Cristiani, un terreno di 54 salmate in località
Agliastretto, Guariello, macchia Scarcella e Colamuscio,
confinanti con il fiume Crocchio, ereditate da Giovanni Gregorio con rogito del
notaio Michele Angelo Valio, ed acquistate da Francesco Antonio Venturi con
rogito di Giovanni Domenico Sgrò il 15 giugno 1695 e da Giuseppe Careco con
rogito di Giuseppe Ducato del 21 giugno 1699. Il prezzo totale pagato da Alfonso
Poerio fu di ducati 1400.
Il 26 luglio
1723 Alfonso Poerio e la sua terza moglie
Teresa Sanseverino, dei baroni di Marcellinara, ottenevano l’indulto pontificio
per la cappella privata dentro il palazzo baronale. Il 4 agosto 1725, Belluccia
Poerio
faceva testamento
in favore delle sue due uniche figlie ancora viventi, Cecia e Cilla, e della
nipote Giovanna:
“istituisco, ordino e faccio per mie Eredi Universali e particolari sopra tutti
li miei effetti e beni di qualsiasi sorte e genere si siano le Signore donna
Cecia Poerio, moglie del Signor don Ferdinando de Nobili et Cilla Poerio vergine
in capillis … Item istituisco mia Erede particolare la Signorina donna Giovanna
Poerio mia nipote, figlia della quondam donna Rosa Poerio mia figlia e di don
Alfonso Poerio coniugi, così nella dote da me costituitali a detta sua madre:
come in altri docati otto cento sopra li miei effetti ereditarij da conseguirli
subito che si collocherà in matrimonio o pure si farà Religiosa in monistero”.
Il barone Alfonso, invece, era esentato dalla restituzione del dotario: “Item
dichiaro che detto don Alfonso Poerio dovrebbe pagarmi il dotario con altri
raggioni dotali: gle li rilascio a riguardo delle spese fatte per la
recuperatione delle doti ed altro”.
Dal matrimonio
con Teresa Sanseverino nacquero Gerolamo III (1722) che divenne il terzo barone
di Belcastro e sposò, nel 1750, Anna Marincola di Petrizzi; altri figli di
Alfonso e Teresa furono Tommaso, Vincenzo e Anna che divenne suora.
Il primogenito
Gerolamo III, divenuto terzo barone di Belcastro, fu condannato nel 1765 a
corrispondere 145 ducati l’anno a suo cugino Tiberio Poerio di Taverna,
figlio del fu Carlo
e Teresa Ferrari, baronessa delle Pantane, in territorio di Belcastro. La
ragione della condanna di Gerolamo III fu dovuta al fatto che suo nonno Gerolamo
I, barone di Stalettì e padre di Alfonso e Gerolamo II aveva istituito un
fedecommesso nel 1759 i cui frutti erano stati intascati solo da Alfonso, barone
di Belcastro.
Dal matrimonio
di Gerolamo III e Anna Marincola erano nati Gaetana (1747), Cecilia e Vincenzo
(1752) che sarà il quarto barone di Belcastro.
Il 10 luglio
1807 Vincenzo sposava Candida Toscano di Pasquale, patrizio cosentino, e di Anna
Foresta; mentre Gaetana sposava il cugino Carlo Antonio Poerio, figlio di
Annibale e della nobildonna Maria Schipani.
Vincenzo Poerio
ebbe un solo figlio di nome Cesare che divenne il quinto barone di Belcastro. A
quest’ultimo, rimasto celibe, Giovan Battista Englen, figlio del barone
Francesco, dimorante a Roccella Ionica, con rogito del notaio Falese
del marzo 1854, nominava suo procuratore in Belcastro il nobile Michele Galati,
per ricevere la donazione di ben 3000 ducati dello zio Cesare Poerio “per
l’affetto che nutre verso signor Don Giovanni Battista Englen suo nipote e le
obbligazioni che gli professa per i tanti favori ricevuti”.
Il barone Cesare
Poerio, nella notte dell’1 agosto 1860, donava il titolo di barone di Belcastro
a Marcello Poerio di Catanzaro.
Con Cesare,
quindi, cessò la linea diretta dei Poerio baroni di Belcastro.
Continuò,
invece, il ramo secondario, i cui fondatori furono, come si è visto, Gaetana
sorella del barone Vincenzo e Carlo Antonio Poerio,
figlio di Annibale e Maria Schipani. E proprio questo ramo fu quello che diede
il lustro maggiore al casato.
Da questo
matrimonio nacquero Giuseppe (m. 1834), Leopoldo (m. 1836), Alfonso (m. 1858),
Raffaele (n. 1792 e m. 1853), Atonia e Maria Teresa.
Giuseppe nacque
a Belcastro il 16 gennaio 1775. Compiuti gli studi “nel collegio dei nobili di
Catanzaro”,
dove ebbe maestri docenti che lo avviarono alla conoscenza della filosofia
illuministica e dell'umanitarismo settecentesco.
“A quattordici anni si era per irresistibile vocazione indirizzato agli studi
giuridici; a sedici anni già arringava nei tribunali e saliva in fama nella sua
provincia”.
Il suo incontro con la città di Napoli fu quasi fortuito nel 1775: “per un grave
processo di accuse a un alto funzionario di colà [Catanzaro], fu menato a Napoli
come difensore aggiunto; e vi rimase perché qui era il terreno proprio alle sue
attitudini e speranze”.
Entrato nella migliore società borghese della capitale, condusse per
alcuni anni una vita gaia e mondana ma, poi, la conoscenza di Carolina
Sossisergio, orfana di un magistrato di Poggiardo, in provincia di Lecce, che
viveva con la madre e due sorelle sotto la tutela di uno zio, fu un vero colpo
di fulmine che modificò profondamente il suo modo di vivere.
Nel 1796 fu
raggiunto dal fratello secondogenito Leopoldo che si arruolò nel corpo dei
volontari nobili, nel quale era stato nel ’98 promosso al grado di alfiere. La
dimora di entrambi fu il palazzo del principe di Belvedere in via dei Guantai,
dove si tenevano anche riunioni di giacobini.
Nei tumultuosi
giorni del gennaio 1799, il ventiquattrenne Giuseppe Poerio prese parte attiva
alla Repubblica Napoletana, divenendo ben presto un protagonista.
Infatti fu lui a trattare con il generale Championnet, stanziato con la sua
colonna militare a Capua
ed entrare trionfalmente a Napoli, il 23 gennaio, cavalcando a fianco del
comandante francese.
Poiché le
province non si erano mostrate sollecite verso il nuovo governo repubblicano, ed
anzi davano segni di preparare la controrivoluzione, la nuova giunta decise di
inviare in questi luoghi gli uomini più rappresentativi per indurli ad accettare
la nuova situazione politica.
Infatti,
nominato commissario del dipartimento della «Sagra»,
in compagnia di Pietro Malena, commissario del dipartimento del Crati, nei primi
di febbraio partì alla volta della Calabria con il difficile compito di
pacificare le popolazioni, quasi tutte avverse al nuovo ordine di cose. Lasciato
il Malena a Cosenza, proseguì verso Catanzaro, dove riuscì a “democratizzare” la
città, subito seguita dal resto del dipartimento.
Il barone di
Belcastro Vincenzo Poerio, zio del giovane Giuseppe, piantò subito l’albero
della libertà.
Giuseppe Poerio,
ritornato nella capitale, prese parte attivamente alla vita politica. Egli fu,
infatti, uno degli artefici delle nuove leggi emanate dal governo repubblicano.
Celebre fu la sua frase: “Lasciamo che la Commissione Legislativa organizzi, o
disorganizzi i Tribunali; organizziamo noi col nostro valore la Libertà”,
in merito alla polemica nata fra la Commissione legislativa e quella esecutiva
sulla riorganizzazione dei tribunali. Pertanto, organizzò una “legione calabra”
da affidare al cugino Schipani, incaricato di andare a presidiare la Calabria.
Ma, ormai, il cardinale Ruffo, sbarcato con pochi soldati dalla Sicilia in
Calabria, stava raccogliendo un grosso esercito di controrivoluzionari,
costituito da contadini e “lazzaroni”, e riconquistando il regno. Alla notizia
di ciò, la spedizione della legione calabra fu annullata e tenuta alla difesa di
Napoli.
Intanto a
Napoli, Giuseppe Poerio, l’8 giugno, fu nominato membro della Commissione
esecutiva per la coscrizione alla guardia nazionale.
Le truppe
borboniche, giunte alle porte di Napoli, ingaggiarono battaglia con la
popolazione insorta.
Giuseppe Poerio
e suo fratello Leopoldo, il 13 giugno 1799, combatterono disperatamente con la
legione calabra prima al Ponte della Maddalena e poi a Castelnuovo. I
combattimenti nella città continuarono per diversi giorni. Il 23 giugno,
Giuseppe Poerio tentò un’ultima disperata azione. Attuò una sortita notturna,
sorprendendo nel sonno le truppe sanfediste alla Villa e a Posillipo, dove prese
a cannonate le truppe reazionarie facendone grande strage e per poco non prese
anche lo stesso cardinale Ruffo che fu costretto a salire su un’imbarcazione e
prendere il largo per porsi fuori dalla gittata dei cannoni. Ma la città
capitolò il giorno seguente e i due fratelli, assieme ai capi della rivolta,
furono arrestati e rinchiusi nelle segrete di Castelnuovo. Il 27 agosto, la
Giunta di Stato condannò Leopoldo alla “relegazione all’isola vita durante”
e Giuseppe all’impiccagione, contrariamente a quanto si era stabilito
precedentemente.
Il 27 settembre, però, “per sopraffina clemenza del Re”, la pena di morte per
Giuseppe fu commutata all’ergastolo e inviato, il 30 settembre, nella “fossa”
penale di Santa Caterina nell’isola di Favignana.
Ma la
persecuzione borbonica si abbatté anche sull’incolpevole Carolina Sossisergio,
perché accusata d’essere fidanzata col giacobino Poerio: Carolina e le sorelle
furono rinchiuse, quasi prigioniere, nel convento di s. Maria del Buon
Consiglio, affidate alla sorveglianza della badessa, dove rimasero fino al 1800,
quando per effetto di un indulto, fu loro concesso di tornare con la famiglia al
paese natale.
Con la vittoria
di Napoleone a Marengo, gli Stati italiani furono costretti a concedere la
costituzione e l’indulto per i condannati politici; per cui, il 28 giugno 1801,
Ferdinando IV di Borbone emanò l’amnistia ed i due fratelli Poerio, dopo due
anni di dura prigione, furono rimessi in libertà.
Ritornati in
Calabria, Giuseppe e Leopoldo abbandonarono i propositi e la mentalità
rivoluzionaria divenendo dei moderati.
Nel mese di
ottobre Giuseppe si recò a Poggiardo e, verso la fine dell’anno, sposò Carolina
stabilendosi nuovamente a Napoli, dove, abbandonata la politica, riprese la sua
professione di avvocato.
Dal matrimonio
nacquero Alessandro (1802), Carlo (1803) e Carlotta (1807), che andò, poi, in
sposa a Paolo Emilio Imbriani, scrittore, deputato e ministro.
Nel 1806 i
napoleonici invasero il Regno di Napoli e Giuseppe Poerio tornò nuovamente alla
politica, assieme a tanti altri ex repubblicani che rappresentavano
l’intelligenza del mezzogiorno e che vedevano, col nuovo governo, aperta la via
alle riforme.
Egli ebbe un
gran numero di cariche e ne citiamo solo alcune.
Il nuovo re
Giuseppe Bonaparte lo nominò subito preside di Lucera e poi, nel 1807,
intendente della provincia di Capitanata e del Molise, dalla quale si dimise per
essersi opposto fermamente al commissario francese che commetteva atti arbitrari
ed estorsioni. Nel 1808, Gioacchino Murat, succeduto al Bonaparte, lo richiamò
come segretario generale della Gran Corte di Cassazione e, nel 1809, regio
commissario della Calabria. Nel 1810, procuratore generale della Cassazione con
nuove missioni in Calabria e in Basilicata; nel 1812, componente del Consiglio
di Stato e, per i suoi meriti patriottici, gli diede il titolo di barone; nel
1814 fu commissario straordinario per riordinare i dipartimenti italici
meridionali, ossia le Marche, la Romana, e il Bolognese, allora occupati dalle
truppe napoletane. Nello stesso anno fu nominato componente del Consiglio
generale di governo che risiedeva a Roma e, nel 1815 fu membro del Consiglio di
Reggenza. Assolse a tutte queste cariche con un grande lavoro, non solo per
l’ordinaria amministrazione, ma soprattutto per la riforma dei vecchi istituti e
per la formazione di nuovi, come la Corte di cassazione e il Codice penale.
Con la caduta
del Murat e il ritorno di Ferdinando I re della Due Sicilie, Giuseppe
Poerio fu costretto ad andare in esilio a Firenze. Ritornato in patria nel 1819,
fu uno dei grandi animatori del moto insurrezionale del 1820, a causa del quale
il re fu costretto a concedere, il 13 luglio, la costituzione, a seguito della
quale Giuseppe fu eletto deputato. Ma, il voltafaccia di Ferdinando I e la
reazione austriaca
non tardò a venire, inviando un esercito in aiuto al re Ferdinando I.
Ma, mentre gran
parte dei deputati si defilava prima dell’arrivo degli austriaci, Giuseppe
Poerio, determinato nel suo spirito libertario, riuscì a raccogliere ventisei
deputati e a compilare la vibrata “protesta” contro l’invasione straniera e a
chiudere il parlamento costituzionale, esclamando alteramente che “può essere
incerta la sorte delle armi, ma non può essere incerta mai quella dell’onore”.
Gli austriaci
- che nel frattempo avevano sconfitto le raccogliticce truppe napoletane inviate
dal governo costituzionale, al comando del generale Guglielmo Pepe, a
contrastare l’avanzata nemica a Rieti -, giunti a Napoli, attuarono una feroce
persecuzione, traendo subito in carcere i liberali napoletani in attesa del
confino.
Giuseppe Poerio
fu arrestato e confinato, con la sua famiglia, prima a Trieste e poi a Gratz, in
Austria.
Verso la fine
del 1822, a seguito del congresso della Santa Allenza di Verona,
Ferdinando I promulgò un editto per gli esiliati di poter risiedere in luoghi di
“loro piacimento” ma, “in ogni caso è loro vietato così il ritorno nel loro
paese natale, come il dimorare nell’Italia austriaca o nella Dalmazia”.
Giuseppe Poerio, nell’ottobre del 1823, lasciate le gelide terre di Gratz, si
recò dapprima nel Granducato di Toscana, nei cui circoli letterari circolavano
idee di moderati come Gino Capponi, Francesco Domenico Guerrazzi, Cosimo
Ridolfi, Pier Francesco Rinuccini, Giovanni Ginori e Vincenzo Salvagnoli.
Sul finire del 1829 alla moglie Carolina con i figli Carlo e Carlotta, fu dato
il permesso di rientrare, prima a Catanzaro, e l’anno seguente a Napoli; mentre
a Giuseppe e al figlio Alessandro fu negato il rientro. Giuseppe Poerio, durante
il soggiorno fiorentino, era entrato subito in contatto con i maggiori
rappresentanti del liberalismo toscano ed altri esiliati, come Giovanni La
Cecilia e Pietro Giordani; essi, avuta notizia della rivoluzione francese del
luglio 1830, idearono un piano, davvero ingenuo, per persuadere il sovrano a
seguire le nuove idee. Tale piano, però, non riuscì per l’intransigenza del
primo ministro Torello Ciantelli, il quale espulse dalla Toscana come
perturbatori Giuseppe Poerio, Giovanni La Cecilia e Pietro Giordani.
Il Poerio,
ancora in esilio, andò prima in Francia e poi a Londra, dove conobbe Giuseppe
Mazzini che cercò di attirarlo subito verso il movimento repubblicano; ma egli,
rendendosi conto dell’impossibilità e con spirito pragmatico, si fece promotore
del partito monarchico costituzionale dei Savoia, entrando così in
corrispondenza epistolare con il Cavour.
L' 8 di novembre
del 1830 salì al trono il ventenne Ferdinando II il quale, manifestò subito idee
nuove, proclamando con un editto l’abolizione dei reati politici e quindi
dell’esilio. Giuseppe Poerio, però, non rientrò subito a Napoli, ma si trattenne
in Inghilterra fino al 1833, anno in cui ritornò in patria, dove riprese a
esercitare l'avvocatura,
divenendo in breve stimato maestro fra i penalisti napoletani.
Non trascurò neanche l’arte scrittoria. Infatti, oltre a pubblicare alcuni testi
sulla letteratura francese,
portò alle stampe anche le sue numerose cause legali
che furono apprezzati esempi giurisprudenza per gli avvocati napoletani.
Giuseppe Poerio
morì a Napoli il 5 agosto 1843.
Il 05 marzo
1882, in sua memoria, fu scoperto il suo busto in Castelcapuano, nel cosiddetto
Saloncino degli busti.
Ma se Giuseppe
Poerio fu uno dei più grandi personaggi del risorgimento napoletano, i suoi
figli non gli furono da meno.
Alessandro, che
fu il primogenito, si dimostrò sin da giovane di ingegno vivacissimo e
desideroso di apprendere; fu avviato agli studi classici che lo fecero
“innamorare della bellezza dell’antica poesia, della grandezza civile di Roma”.
Ancora molto giovane, aveva conosciuto il Monti e, durante il soggiorno della
famiglia a Firenze, aveva potuto sentire dalla contessa
Luisa Stolberg d'Albany il vivo ricordo di
Vittorio Alfieri o “avere da Madame de Staël l’indicazione di più vasti campi di
studio, di più aperti orizzonti letterari”.
Nel 1820
Alessandro Poerio ebbe un posto nella segreteria del ministero degli esteri che
non esitò ad abbandonare subito, non appena scoppiò l’insurrezione napoletana
del ’21. Sebbene di salute malaticcia,
egli pregò ardentemente il padre, forse titubante per la sua giovane età, di
lasciarlo partire con le truppe del pepe a contrastare l’invasione austriaca:
“Per quell’amore che mi avete sempre mostrato, lasciate che io vada a militare
per la patria, e pregate il Generale [Pepe]
di ricevermi nel sua Stato Maggiore come soldato, dacché solo egli, fra tutti i
generali, combatterà davvero, e contro di lui si volgeranno le forze nemiche”.
Alessandro fu assegnato ad un battaglione di fanteria comandato dal generale
Giovanni Ruffo che, nella battaglia decisiva di Rieti, sebbene inferiore di
forze, rigettò più volte gli incalzanti assalti di un reparto della cavalleria
nemica, anche se la battaglia si svolse in favore delle forze austriache. Ma la
sconfitta non fermò il giovane Alessandro perché accorse subito, assieme a suo
zio Raffaele, in difesa di Salerno che ancora resisteva valorosamente alle forze
nemiche.
Sconfitti
i liberali, mentre Raffaele Poerio fuggiva in Africa, egli seguì il padre
all’esilio di Trieste e Gratz, dedicandosi completamente allo studio. Quando,
nel 1823, la famiglia Poerio ottenne il permesso per soggiornare in terra
italiana, cioè a Firenze, Alessandro intraprese un lungo viaggio in Germania per
approfondire i suoi studi filosofici e filologici. Si recò dapprima a Gottingen
e, quindi, alle università Konisberg, Gessen, Heidelbergh, Dresda, Monaco,
Breslavia in Polonia, e più volte a Weimar, dove sottopose a Wolfang
Goethe le traduzioni manoscritte dell’Ifigenia e della
Sposa di Corinto,
ricevendo gli elogi dello stesso Goethe col quale Alessandro strinse una
cordiale amicizia, continuata anche dopo il ritorno in Italia attraverso una
corrispondenza epistolare. Raggiunse la famiglia a Firenze nel ’26, quando
ancora ventiquattrenne, entrò a far parte del gruppo dell’«Antologia»,
intrecciando amicizie con intellettuali d’Italia,
come Pietro Colletta, Carlo Troya, Giovan Battista Niccolini, Giacomo Leopardi,
Gino Capponi, Nicolò Tommaseo, Alessandro Manzoni, Giuseppe Giusti (che gli
dedicò l’opera Gingillino), Amedeo Giordani e tutti gli altri che
componevano il gruppo dell’«Antologia».
Alessandro era
molto legato al padre, tanto che, quando Carolina ottenne il permesso di poter
rientrare, nel ’29, con i figli a Napoli, egli preferì seguire il padre nel suo
esilio a Parigi, dove rivide il Tommaseo che frequentò assiduamente fino al 1835.
Ritornato a
Napoli, e sebbene esercitasse la professione forense assieme al padre, si dedicò
maggiormente alla poesia con la pubblicazione, nel 1843, di una raccolta anonima
di Alcune liriche. Nel 1847 si recò a Roma, attratto dalla concessione
della costituzione e dalle riforme di Pio IX
che gli fecero “sentire” i tempi maturi per un mutamento politico anche nel
regno di Napoli, dove, ritornato verso la fine dell’anno, intensificò il suo
lavoro per raccogliere, stringere e guidare gli amici che, dopo i moti siciliani
(gennaio 1848), si riunivano a casa sua per chiedere con lui e suo fratello
Carlo (sebbene questi fidasse poco nel liberalismo del Papa) il ripristino della
costituzione del 1820 che essi consideravano sospesa e non cancellata.
Ferdinando II, timoroso che il moto siciliano potesse espandersi anche nella
capitale o in altre parti del regno, il 28 gennaio, restaurò la costituzione,
nel cui nuovo governo entrò a far parte Carlo Poerio, come ministro degli
interni, dal quale si dimise perché non condivideva la riforma costituzionale
del ministro degli Interni, Francesco Paolo Bozzelli, che piano piano stava
sostituendo la vecchia costituzione napoletana del ’20 con quella piemontese.
Frattanto, nel
mese di febbraio, la Francia, cacciato il re Luigi Filippo, si dava un governo
repubblicano; nel mese di marzo, per evitare le incombenti insurrezioni,
l’imperatore Ferdinando d’Austria, concedeva la costituzione; il ducato di
Milano, con le sue Cinque giornate (18 - 22 marzo) cacciava gli austriaci
che si ritiravano anche dal Veneto, eccetto Verona.
Nel Regno di
Napoli, Ferdinando II fece un nuovo governo, licenziando Francesco Paolo
Bozzelli e nominando Carlo Poerio ministro della pubblica istruzione.
Carlo Alberto,
cui tutta l’Italia guardava come unico re della nazione,
il 29 marzo, valicava il Ticino e muoveva guerra all’Austria, raccogliendo le
prime vittorie a Goito, Monzambano, Borghetto, Valeggio e soprattutto Pastrengo,
frail mantovano e il veronese. Gli italiani, pervasi da un forte anelito
antiaustriaco, accorsero in migliaia da tutti gli altri Stati ad infoltire
l’esercito sabaudo.
Il corpo di
spedizione napoletano era costituito da 14.000 volontari del quale Alessandro
Poerio, che aveva salutato lo scoppio della prima guerra d’indipendenza come la
“tempesta magnifica”, fu uno dei promotori, arruolandosi anche lui, all’età di
quarantasei anni, come volontario agli ordini del generale Guglielmo Pepe.
Le sorti della
guerra, però, dopo le fasi iniziali favorevoli a Carlo Alberto, si capovolsero
in favore del generale Radetzky che, nel frattempo si era rinforzato con altre
truppe provenienti dall’Austria, mentre quello di Carlo Alberto si indebolì per
il richiamo in patria dei volontari toscani e romani.
I soldati
napoletani, di fronte all’incalzare delle truppe austriache si asserragliarono
nel forte di Mestre, subito assediato dai soldati austriaci. Il generale Pepe
tentò una sortita, cercando si sorprendere il nemico, ma un forte fuoco di
sbarramento li fece indietreggiare.
Alessandro
Poerio, però, impavidamente continuò ad andare incontro al nemico incitando i
compagni, ma una palla di cannone gli mozzò una gamba. Trasportato all’ospedale
di Venezia, l’arto gli andò in pericolosa cancrena.
Così scriveva
alla madre e al fratello, infermo in ospedale: “Dalla lettere del generale
avrete rilevato quel ch’è avvenuto. Come avrei dato volentieri la mia vita per
la patria, così non mi dorrò di restare con una gamba di meno”. Dopo alcuni
giorni, sentendosi avvicinare la fine, si mostrò sempre sereno e rassegnato.
Poco prima della morte raccomandava al suo generale di “non fidarsi dei re” e al
sacerdote che gli suggeriva parole di perdono rispose: “non ho mai odiato
nessuno, sento solo fatica ad amare i nemici d’Italia”.
Era il 23
novembre 1848, quando spirò serenamente, come chi ha la coscienza a posto,
sicuro d’aver compiuto il proprio dovere fino in fondo.
La città di
Mestre, memore del valore dimostrato, gli intitolò quel forte che inutilmente
aveva cercato di assaltare.
Dopo la sua morte furono pubblicate altre sue
opere e cioè: Alessandro Poerio a Venezia: lettere e documenti del 1848,
illustrati da Vittorio Imbriani, pubblicate a Napoli nel 1884; Poesie
edite e postume di Alessandro Poerio. La prima volta raccolte con cenni intorno
alla sua vita per Mariano D'Ayala, pubblicate a Firenze nel 1852; XCIX
Pensieri, curati da V. Imbriani, Napoli 1882; Liriche inedite, a cura
di G. Amalfi, Piano di Sorrento 1886; Lettere a Nicolò Puccini, Pistoia
1888; Liriche e lettere inedite, curate da A. U. Del Giudice, Torino
1889; Alessandro Poerio. Il Viaggio in Germania. Il carteggio letterario ed
altre prose, pubblicate da B. Croce a Napoli nel 1917; Lettere inedite a
Nicolò Puccini, curate da A. Zanelli, in «Rassegna storica del
Risorgimento», a. XII, n. 1, 1925; Liriche e frammenti inediti di Alessandro
Poerio, curate e pubblicate da Nunzio Coppola a Roma nel 1966.
Il secondogenito
di Giuseppe e Gaetana Poerio fu Carlo che, forse meglio del fratello Alessandro,
sembrava disposto a proseguire la via paterna e a raccoglierne l’eredità
politica.
I due fratelli
differivano fra loro sia fisicamente sia caratterialmente. Alessandro, di fisico
malaticcio, ebbe un animo spiccatamente sensibile che, sebbene avvocato anche
lui, lo indirizzò di più verso le lettere e la poesia; Carlo, di statura
robusta, era pacato e ponderato nelle sue azioni e molto versato alla carriera
forense come il padre.
Questa
differenza la notò Guglielmo Pepe, esiliato anche lui a Gratz assieme a Giuseppe
Poerio, evidenziando l’atteggiamento meditativo e fantasticante del giovane
Alessandro, al contrario del realismo di Carlo; sui due giovani fratelli così si
esprimeva il Pepe: [Alessandro], “quando non è sui libri, è sempre fuori del suo
elemento e fa naufragio
nelle più ovvie e giornaliere occorrenze della vita” con “l’attività del signor
don Carlino”.
Mentre
Alessandro era convinto che il cambiamento politico poteva avvenire solo con le
armi, con la “guerra tremenda”, “tempesta magnifica”,
Carlo ebbe sempre presente che la riforma di Napoli si poteva realizzare
soltanto attraverso un governo costituzionale, frutto dell’emancipazione
popolare e delle conseguenti trattative con il re, in ciò costretto dagli eventi
generali e non particolari.
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Se Giuseppe,
Alessandro e Carlo vissero in prima persona le lotte e le battaglie per la
libertà, Carolina non fu da meno. Essa fu compagna fedele del marito, col quale
ne condivise amorevolmente le idee, le lotte, le sofferenze e le gioie. Fu madre
premurosa a temprare i suoi figli alle prove cui sarebbero andati incontro.
Nel 1843, quando
perse “il suo compagno di tanti palpiti e di tante sventure, ma anche di tante
nobili gioie”
fu sul punto di morire “per aver voluto - come scriveva Alessandro al
Capponi - con troppo virile animo reprimere in fondo al cuore l’angoscia,
come stimava convenisse alla vedova di tanto uomo”.
E quando, l’anno
seguente, Carlo veniva condotto in galera per la seconda volta, Alessandro era
tutto abbattuto vedendole manifestare la sua “gran forza d’animo”, ma che
intimamente le arrecava una grande devastazione.
Appena quattro
anni dopo la situazione peggiorò ancora di più, quando Carlo si trovava in prima
linea dell’agone politico, Alessandro andò a combattere a Venezia, il genero
Paolo Emilio Imbriani si tovò anche lui nello scontro politico, il cognato
Raffaele, rientrato in Italia dopo ventisette anni d’esilio, si mise al comando
di una brigata lombarda contro gli austriaci, e il nipote Enrico, figlio
superstite di Leopoldo Poerio, partì da Napoli luogotenente nel battaglione di
volontari napoletani, rimanendo ferito nella battaglia di Mantova.
Con grandezza
d’animo, così scriveva alla cognata Teresa de Nobili di Catanzaro, moglie di
Raffaele: “Io sono contenta, anzi orgogliosa che tutto ciò che ha nome Poerio si
adoperi per la buona causa. Vostro marito, Alessandro ed Enrico in Lombardia,
Carlo in Napoli; e Carlotta pure, per mezzo di suo marito,
rappresenta la sua parte”.
Avveduta per
natura
ed ormai esperta delle tante vicende vissute in prima persona, coglieva in pieno
il significato dell’intreccio delle rivoluzioni, repressioni e guerre che in
quel periodo furono così intense e ben sapeva che il lato buono non stava solo
da una parte; così scriveva, nel luglio 1848, ad Alessandro dichiaratamente
contrario alla monarchia: “Speriamo che la lotta tra Popoli e Sovrani sia alla
fine decisa favorevole a chi meriterà la protezione divina, perché orrori si
commettono da ambo i lati”
e così scriveva al giovane nipote Enrico in Lomardia: “Caro Enrico, sei nuovo in
questo genere di affari! Tutta l’Europa è in trambusto; la lotta sarà orrenda,
universale e lunga: bisogna aver coraggio, e fiducia nella Provvidenza”.
Come suo marito Giuseppe e suo figlio Carlo, disprezzava gli estremisti che
“spingevano le cose all’eccesso” e gli sciocchi i quali “credevano che bastasse
gridare per ottenere anche il di là del possibile” e i “tristi e retrogradi” che
sconvolgevano più dei veri liberali, mentre gli esaltati si tiravano indietro al
momento del pericolo, come successe a Napoli il 15 maggio 1848, quando questi
abbandonarono sulle barricate le poche centinaia di liberali a battersi. Ed in
questa fitta corrispondenza con i suoi essa li confortava tenendo loro presente
che “ognuno risponde delle proprie azioni” ed anzi è più meritevole colui “che
in mezzo a tanta corruzione si mantiene puro e non somiglia agli altri”.
Ormai
settantenne, per il suo buono stato di salute scriveva alla figlia Carlotta,
esule a Nizza: “Sarà fortuna, sarà disgrazia questa mia buona salute? Debbo
vedere tristi o buone cose?”. E, purtroppo vide cose tristi. Dopo le prime
vittorie di Carlo Alberto piene di speranza, seguirono i rovesci del suo
esercito, il ritiro degli aiuti napoletani, la resa di Milano ed, infine, la
ferita e poi la morte di suo figlio Alessandro. Così scriveva a suo figlio Carlo
che, nel febbraio del 1850, dal penitenziario di Montefusco veniva condotto
davanti ai giudici: “Carissimo figlio, spero che questa mane sarai chiamato per
fare il tuo costituto: il quale senza dubbio sarà dell’uomo d’onore, come
dev’essere il figlio di Giuseppe Poerio e mio”.
Nel frattempo,
il genero Paolo Emilio Imbriani fu costretto ad andare in esilio a Nizza, subito
seguito da sua moglie Carlotta e dai suoi figlioletti, e Carolina rimaneva sola
assistita dall’affetto dei pochi amici e dalla cognata Atonia Poerio, ritiratasi
in un convento di Napoli, che quando poteva usciva dal monastero per andare a
trovarla.
Carolina
Sossisergio Poerio, ammalatasi, morì serenamente assistita dal conforto e
dall’amore di pochi amici senza poter rivedere i suoi familiari.
La città di
Lecce, memore della grandezzaa di questa donna, le dedicò, oltre il nome di una
via, anche una scuola, l’attuale Liceo pedagogico “Carolina Sossisergio Poerio”.
Carlotta Poerio
fu l’ultima nata di Giuseppe e Carolina ed anche lei subì le traversie
familiari.
Nel 1838, dopo
il ritorno a Napoli, all’età di trentun anni andò in sposa a Paolo Emilio
Imbriani, conosciuto durante l’esilio in Toscana,
dove si era rifugiato il padre Matteo assieme a Giuseppe Poerio, dopo l’arrivo
degli austriaci a Napoli nel 1821.
Carlotta, già
percossa duramente dai lunghi anni d’esilio, dal dolore della morte del fratello
Alessandro e della madre, dalla pena del fratello Carlo condannato
all’ergastolo, dalla sofferenza per l’esilio del marito e dal sequestro di ogni
bene di famiglia, si rifuggiò nell’educazione dei suoi figli. “Io ho il coraggio
di resistere a tutte le sventure che ci circondano - scriveva nel 1848 al
fratello Alessandro - pel pensiero che mi debbo ai miei figli e che mi
corre l’obbligo di educarli virilmente, di renderli insomma uomini, merce di cui
v’è difetto ne’ tempi presenti, tempi di corruttela e di viltà”.
Aveva
perfettamente appreso questi concetti morali e sociali e il senso del sacrificio
dalla madre Carolina; ma mentre questa, oltre che nell’amore familiare, era
forte anche nel carattere, mostrando sempre serenità ed incoraggiamento contro
le avversità, Carlotta fu madre fragile e trepidante per la sorte dei suoi
giovani figli.
Dal suo
matrimonio nacquero: Geppino, malaticcio, Vittorio, Matteo, Giorgio e Caterina.
Mentre Geppino
cresceva in maniera appartata, gli altri tre fratelli crebbero in maniera
contrastante. Tutti e tre concepivano la vita come deduzione da regole assolute
e, quindi, rigidi nel modo di concepirla: Vittorio, a diciannove anni, vedeva
dappertutto vergogna e viltà, tanto da provare ribrezzo per gli italiani perché
corrotti; Giorgio, sedicenne, non riusciva a tollerare i compagni dell’accademia
militare di Torino perché, secondo lui, gente abietta; Matteo divenne famoso per
i suoi giudizi assoluti tanto che, per esempio, il vedovo che passa a seconde
nozze, a suo dire, era uomo ignobile.
Ovviamente,
questa concezione strettamente rigida della vita si ritorceva anche sui fratelli
Imbriani, invano ammoniti dai genitori verso un’idea più moderata della vita.
Questi contrasti
di tendenze familiari erano causati anche dalla loro giovane età, oltre che dai
dettami della pura ragione e, quindi, dall’indipendenza del proprio pensiero.
Vittorio che allora era repubblicano e odiava i re, diventò poi monarchico,
avendo in odio i democratici e giudicando severamente suo zio Carlo.
Matteo,
ufficiale dei granatieri di Sardegna e monarchico, andando in casa della zia
Nina Poerio,
che aveva sposato Francesco Nicotera, e porgendo la mano a Silvia Pisacane, fu
da questa accusata di “servire il Tiranno”.
Matteo era il
più giovane e il prediletto di Carlotta, ma era anche il più irrequieto e
indomabile.
Vittorio, che
nel 1859 si trovava a Zurigo per completare i suoi studi, non esitò a tornare in
Italia, contro il volere di suo padre, per partecipare alla seconda guerra di
Indipendenza, pur odiando Napoleone III ed lanciando insulti contro il
“canagliume” dei suoi compagni di reggimento. L’anno dopo non esitò a
raggiungere Garibaldi e, nella battaglia di Castel Morrone, fu seriamente ferito
e condotto prigioniero prima a Capua e poi a Gaeta.
Nel 1866 i tre
fratelli Imbriani erano a Napoli: Matteo ufficiale alla guarnigione della città,
Vittorio si era ormai convertito alla monarchia, Giorgio diciottenne sempre più
repubblicano. E tutti e tre si arruolarono nell’esercito di Garibaldi nella
spedizione del generale Enrico Cosenz.
Una lettera di
Carlotta al fratello Carlo
- nella quale pregava il fratello di cercare di convincere il marito Paolo
Emilio Imbriani di rispettare la volontà dei figli, contrario alla loro partenza
per la guerra, - datata 3 maggio 1866, apprendiamo che essa aveva “pochi
mesi di vita”, quindi, era gravemente ammalata. In una successiva lettera del 9
maggio dello stesso anno, indirizzata sempre al fratello Carlo, scriveva che era
“il sesto mese ch’io passo i miei giorni sopra una poltrona”.
Carlotta Poerio
morì pochi mesi dopo. |