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di Raffaele Piccolo

FAMIGLIA POERIO

 

Famiglia patrizia di Taverna, presente in Calabria dal secolo XIII.

Al contrario delle altre fin qui riportate, della famiglia Poerio vi sono abbastanza dati per ricostruirne le vicende, specie su quella del ramo belcastrese.

Fu feudataria di Belcastro, con il titolo di barone, dall’8 aprile 1715 fino all’eversione della feudalità (1806), salvo una breve parentesi (1803-1809) durante la quale la baronia fu data in affitto ad Antonio Cirillo di Taverna.

Il ramo catanzarese, invece, ebbe le baronie di Cardeto e di Feroleto.

Nel 1588 entrò nell'Ordine di Malta con Orazio e alcuni suoi appartenenti furono Cavalieri di s. Giacomo con Carlo, Francesco e Girolamo. Si imparentò ripetutamente con i Ferrari, i Marincola, i Toscano e i de Nobile.

A Belcastro i Poerio furono particolarmente legati e per lungo tempo.

I primi rapporti con Belcastro risalgono al 13 agosto 1500 con Andrea il quale acquistò dalla contessa Costanza d’Avalos il feudo rustico di Scarpa, dove si succedettero Alfonso e poi il figlio di questi Andrea a cui la contessa Costanza, il 13 agosto 1520, confermava il diritto ereditario per i suoi discendenti. Fino all’anno 1592 risultava feudatario di Scarpa Giovan Vincenzo Poerio che condusse la famiglia a vivere stabilmente a Belcastro, dove, nel 1603, figurava tra gli eletti dei nobili.

Giovan Angelo Poerio acquistava, nel 1648, da Carlo Mannarino di Petilia Policastro, che aveva sposato una Poerio, la quarta parte del feudo di Magliacane.

Proprietaria, ormai, di diversi fondi terrieri, intorno al 1704, in un sito di pertinenza della famiglia, fu fondato da coloni provenienti dalla vicina provincia di Cosenza un casale cui fu dato il nome di S. Giovanni della Croce, tramutato poi in Cerva.

Il l 9 agosto 1714 il duca di Belcastro Fabio Caracciolo, “bisognando per tali ed altre cause la somma di docati cinque milia … concesse in affitto ad esso Signor don Francesco [Poerio] la suddetta terra [di Belcastro] con suoi Casali per anni quattro continui incipiendi dal primo giorno del prossimo entrante mese di Settembre del corrente anno mille sette cento e quattordici avanti, per docati mille quattro cento cinquanta l’anno con più patti e dichiarazioni”.

Francesco Poerio, figlio di Cesare e Lucrezia Pallone, era nipote di Giovan Angerlo Poerio compratore della quarta parte di Magliacane. Era “Cavaliere dell’Abito di San Giacomo della Città di Taverna degente in questa [città] di Catanzaro” e prendeva in affitto le terre del ducato di Belcastro, al termine dei quali si impegnava ad acquistarle con il titolo di barone ad un “prezzo di Ducati cinquantatremila e loro interesse”. Francesco, il 3 maggio 1710, aveva sposato Isabella Poerio, detta Belluccia. Dalla loro unione erano nati sei figli. Lucrezia, sposa una prima volta (1708) ad Annibale Poerio di Andrea ed una seconda volta (1712) a Ferdinando de Nobili, barone di Magliacane. Lucrezia morì l’8 maggio 1724. La seconda figlia Cecilia, detta Cecia, sposò il barone Ferdinando de Nobili alla morte della sorella Lucrezia. Il terzogenito Alfonso premorì al padre. La quarta figlia Cilla rimase nubile. Rosa sposò, nel 1712, il cugino Alfonso Poerio, barone di Stalettì e dalla loro unione nacque una figlia di nome Giovanna che andò sposa, nel 1749, al nobile catanzarese Ignazio Maiorana. Ultimo figlio di Francesco e Belluccia Poerio fu Vincenzo che morì in giovane età. Il barone Francesco, però, non fece intestare la baronia a se stesso ma a suo nipote e genero Alfonso[1], marito di Rosa. Infatti, l’8 aprile 1715, il duca Carlo Caracciolo chiedeva il regio assenso alla vendita, fatta il 9 agosto dell’anno precedente, “a beneficio di D. Alfonso Poerio, figlio primogenito di D. Girolamo” e barone di Stalettì.

La baronessa Rosa Poerio, moglie di Alfonso, morì prima del 1721, poiché, da alcuni acquisti di terreni operati da Alfonso proprio in quell’anno, la Poerio non vi è citata.

Infatti Alfonso, il 24 aprile 1721, acquistava dalla famiglia Cristiani di Catanzaro, dove si era trasferita da Belcastro, i seguenti terreni: da Rocco Cristiani 100 salmate in Marina di Belcastro, località Lo Cino, consistenti in 9 sozze (appezzamenti) dette S. Antonio, Marinella, del Tavoliere, Marinella superiore, Pezzotti, Col'Antonio, Selle, Felicetto e Martinello con vigna; in territorio di Cropani un altro terreno detto la Sozza grande[2]. Da Giovanni Giacinto Cristiani, un terreno di 54 salmate in località Agliastretto, Guariello, macchia Scarcella e Colamuscio, confinanti con il fiume Crocchio, ereditate da Giovanni Gregorio con rogito del notaio Michele Angelo Valio, ed acquistate da Francesco Antonio Venturi con rogito di Giovanni Domenico Sgrò il 15 giugno 1695 e da Giuseppe Careco con rogito di Giuseppe Ducato del 21 giugno 1699. Il prezzo totale pagato da Alfonso Poerio fu di ducati 1400.

Il 26 luglio 1723 Alfonso Poerio e la sua terza moglie[3] Teresa Sanseverino, dei baroni di Marcellinara, ottenevano l’indulto pontificio per la cappella privata dentro il palazzo baronale. Il 4 agosto 1725, Belluccia Poerio faceva testamento in favore delle sue due uniche figlie ancora viventi, Cecia e Cilla, e della nipote Giovanna[6]: “istituisco, ordino e faccio per mie Eredi Universali e particolari sopra tutti li miei effetti e beni di qualsiasi sorte e genere si siano le Signore donna Cecia Poerio, moglie del Signor don Ferdinando de Nobili et Cilla Poerio vergine in capillis … Item istituisco mia Erede particolare la Signorina donna Giovanna Poerio mia nipote, figlia della quondam donna Rosa Poerio mia figlia e di don Alfonso Poerio coniugi, così nella dote da me costituitali a detta sua madre: come in altri docati otto cento sopra li miei effetti ereditarij da conseguirli subito che si collocherà in matrimonio o pure si farà Religiosa in monistero”. Il barone Alfonso, invece, era esentato dalla restituzione del dotario: “Item dichiaro che detto don Alfonso Poerio dovrebbe pagarmi il dotario con altri raggioni dotali: gle li rilascio a riguardo delle spese fatte per la recuperatione delle doti ed altro”.   

Dal matrimonio con Teresa Sanseverino nacquero Gerolamo III (1722) che divenne il terzo barone di Belcastro e sposò, nel 1750, Anna Marincola di Petrizzi; altri figli di Alfonso e Teresa furono Tommaso, Vincenzo e Anna che divenne suora.                       

Il primogenito Gerolamo III, divenuto terzo barone di Belcastro, fu condannato nel 1765 a corrispondere 145 ducati l’anno a suo cugino Tiberio Poerio di Taverna[9], figlio del fu Carlo[10] e Teresa Ferrari, baronessa delle Pantane, in territorio di Belcastro. La ragione della condanna di Gerolamo III fu dovuta al fatto che suo nonno Gerolamo I, barone di Stalettì e padre di Alfonso e Gerolamo II aveva istituito un fedecommesso nel 1759 i cui frutti erano stati intascati solo da Alfonso, barone di Belcastro.

Dal matrimonio di Gerolamo III e Anna Marincola erano nati Gaetana (1747), Cecilia e Vincenzo (1752) che sarà il quarto barone di Belcastro.

Il 10 luglio 1807 Vincenzo sposava Candida Toscano di Pasquale, patrizio cosentino, e di Anna Foresta; mentre Gaetana sposava il cugino Carlo Antonio Poerio, figlio di Annibale e della nobildonna Maria Schipani.

Vincenzo Poerio ebbe un solo figlio di nome Cesare che divenne il quinto barone di Belcastro. A quest’ultimo, rimasto celibe, Giovan Battista Englen, figlio del barone Francesco, dimorante a Roccella Ionica, con rogito del notaio Falese del marzo 1854, nominava suo procuratore in Belcastro il nobile Michele Galati, per ricevere la donazione di ben 3000 ducati dello zio Cesare Poerio “per l’affetto che nutre verso signor Don Giovanni Battista Englen suo nipote e le obbligazioni che gli professa per i tanti favori ricevuti”.

Il barone Cesare Poerio, nella notte dell’1 agosto 1860, donava il titolo di barone di Belcastro a Marcello Poerio di Catanzaro.

Con Cesare, quindi, cessò la linea diretta dei Poerio baroni di Belcastro.

Continuò, invece, il ramo secondario, i cui fondatori furono, come si è visto, Gaetana sorella del barone Vincenzo e Carlo Antonio Poerio[14], figlio di Annibale e Maria Schipani. E proprio questo ramo fu quello che diede il lustro maggiore al casato.

Da questo matrimonio nacquero Giuseppe (m. 1834), Leopoldo (m. 1836), Alfonso (m. 1858), Raffaele (n. 1792  e m. 1853), Atonia e Maria Teresa.

Giuseppe nacque a Belcastro il 16 gennaio 1775. Compiuti gli studi “nel collegio dei nobili di Catanzaro” [15], dove ebbe maestri docenti che lo avviarono alla conoscenza della filosofia illuministica e dell'umanitarismo settecentesco[16]. “A quattordici anni si era per irresistibile vocazione indirizzato agli studi giuridici; a sedici anni già arringava nei tribunali e saliva in fama nella sua provincia”. Il suo incontro con la città di Napoli fu quasi fortuito nel 1775: “per un grave processo di accuse a un alto funzionario di colà [Catanzaro], fu menato a Napoli come difensore aggiunto; e vi rimase perché qui era il terreno proprio alle sue attitudini e speranze”. Entrato nella migliore società borghese della capitale,  condusse per alcuni anni una vita gaia e mondana ma, poi, la conoscenza di  Carolina Sossisergio, orfana di un magistrato di Poggiardo, in provincia di Lecce, che viveva con la madre e due sorelle sotto la tutela di uno zio, fu un vero colpo di fulmine che modificò profondamente il suo modo di vivere.

Nel 1796 fu raggiunto dal fratello secondogenito Leopoldo che si arruolò nel corpo dei volontari nobili, nel quale era stato nel ’98 promosso al grado di alfiere. La dimora di entrambi fu il palazzo del principe di Belvedere in via dei Guantai, dove si tenevano anche riunioni di giacobini.

Nei tumultuosi giorni del gennaio 1799, il ventiquattrenne Giuseppe Poerio prese parte attiva alla Repubblica Napoletana, divenendo ben presto un protagonista[19]. Infatti fu lui a trattare con il generale Championnet, stanziato con la sua colonna militare a Capua[20] ed entrare trionfalmente a Napoli, il 23 gennaio, cavalcando a fianco del comandante francese.

Poiché le province non si erano mostrate sollecite verso il nuovo governo repubblicano, ed anzi davano segni di preparare la controrivoluzione, la nuova giunta decise di inviare in questi luoghi gli uomini più rappresentativi per indurli ad accettare la nuova situazione politica.

Infatti, nominato commissario del dipartimento della «Sagra»[21], in compagnia di Pietro Malena, commissario del dipartimento del Crati, nei primi di febbraio partì alla volta della Calabria con il difficile compito di pacificare le popolazioni, quasi tutte avverse al nuovo ordine di cose. Lasciato il Malena a Cosenza, proseguì verso Catanzaro, dove riuscì a “democratizzare” la città, subito seguita dal resto del dipartimento.

Il barone di Belcastro Vincenzo Poerio, zio del giovane Giuseppe, piantò subito l’albero della libertà[22].

Giuseppe Poerio, ritornato nella capitale, prese parte attivamente alla vita politica. Egli fu, infatti, uno degli artefici delle nuove leggi emanate dal governo repubblicano. Celebre fu la sua frase: “Lasciamo che la Commissione Legislativa organizzi, o disorganizzi i Tribunali; organizziamo noi col nostro valore la Libertà”, in merito alla polemica nata fra la Commissione legislativa e quella esecutiva sulla riorganizzazione dei tribunali. Pertanto, organizzò una “legione calabra” da affidare al cugino Schipani, incaricato di andare a presidiare la Calabria. Ma, ormai, il cardinale Ruffo, sbarcato con pochi soldati dalla Sicilia in Calabria, stava raccogliendo un grosso esercito di controrivoluzionari, costituito da contadini e “lazzaroni”, e riconquistando il regno. Alla notizia di ciò, la spedizione della legione calabra fu annullata e tenuta alla difesa di Napoli.

Intanto a Napoli, Giuseppe Poerio, l’8 giugno, fu nominato membro della Commissione esecutiva per la coscrizione alla guardia nazionale.

Le truppe borboniche, giunte alle porte di Napoli, ingaggiarono battaglia con la popolazione insorta.

Giuseppe Poerio e suo fratello Leopoldo, il 13 giugno 1799, combatterono disperatamente con la legione calabra prima al Ponte della Maddalena e poi a Castelnuovo. I combattimenti nella città continuarono per diversi giorni. Il 23 giugno, Giuseppe Poerio tentò un’ultima disperata azione. Attuò una sortita notturna, sorprendendo nel sonno le truppe sanfediste alla Villa e a Posillipo, dove prese a cannonate le truppe reazionarie facendone grande strage e per poco non prese anche lo stesso cardinale Ruffo che fu costretto a salire su un’imbarcazione e prendere il largo per porsi fuori dalla gittata dei cannoni. Ma la città capitolò il giorno seguente e i due fratelli, assieme ai capi della rivolta, furono arrestati e rinchiusi nelle segrete di Castelnuovo. Il 27 agosto, la Giunta di Stato condannò Leopoldo alla “relegazione all’isola vita durante”[24] e Giuseppe all’impiccagione, contrariamente a quanto si era stabilito precedentemente[25]. Il 27 settembre, però, “per sopraffina clemenza del Re”, la pena di morte per Giuseppe fu commutata all’ergastolo e inviato, il 30 settembre, nella “fossa” penale di Santa Caterina nell’isola di Favignana[26].

Ma la persecuzione borbonica si abbatté anche sull’incolpevole Carolina Sossisergio, perché accusata d’essere fidanzata col giacobino Poerio: Carolina e le sorelle furono rinchiuse, quasi prigioniere, nel convento di s. Maria del Buon Consiglio, affidate alla sorveglianza della badessa, dove rimasero fino al 1800, quando per effetto di un indulto, fu loro concesso di tornare con la famiglia al paese natale.

Con la vittoria di Napoleone a Marengo, gli Stati italiani furono costretti a concedere la costituzione e l’indulto per i condannati politici; per cui, il 28 giugno 1801, Ferdinando IV di Borbone emanò l’amnistia ed i due fratelli Poerio, dopo due anni di dura prigione, furono rimessi in libertà.

Ritornati in Calabria, Giuseppe e Leopoldo abbandonarono i propositi e la mentalità rivoluzionaria divenendo dei moderati.

Nel mese di ottobre Giuseppe si recò a Poggiardo e, verso la fine dell’anno, sposò Carolina stabilendosi nuovamente a Napoli, dove, abbandonata la politica, riprese la sua professione di avvocato.

Dal matrimonio nacquero Alessandro (1802), Carlo (1803) e Carlotta (1807), che andò, poi, in sposa a Paolo Emilio Imbriani, scrittore, deputato e ministro.

Nel 1806 i napoleonici invasero il Regno di Napoli e Giuseppe Poerio tornò nuovamente alla politica, assieme a tanti altri ex repubblicani che rappresentavano l’intelligenza del mezzogiorno e che vedevano, col nuovo governo, aperta la via alle riforme.

Egli ebbe un gran numero di cariche e ne citiamo solo alcune.

Il nuovo re Giuseppe Bonaparte lo nominò subito preside di Lucera e poi, nel 1807, intendente della provincia di Capitanata e del Molise, dalla quale si dimise per essersi opposto fermamente al commissario francese che commetteva atti arbitrari ed estorsioni. Nel 1808, Gioacchino Murat, succeduto al Bonaparte, lo richiamò come segretario generale della Gran Corte di Cassazione e, nel 1809, regio commissario della Calabria. Nel 1810, procuratore generale della Cassazione con nuove missioni in Calabria e in Basilicata; nel 1812, componente del Consiglio di Stato e, per i suoi meriti patriottici, gli diede il titolo di barone; nel 1814 fu commissario straordinario per riordinare i dipartimenti italici meridionali, ossia le Marche, la Romana, e il Bolognese, allora occupati dalle truppe napoletane. Nello stesso anno fu nominato componente del Consiglio generale di governo che risiedeva a Roma e, nel 1815 fu membro del Consiglio di Reggenza. Assolse a tutte queste cariche con un grande lavoro, non solo per l’ordinaria amministrazione, ma soprattutto per la riforma dei vecchi istituti e per la formazione di nuovi, come la Corte di cassazione e il Codice penale.

Con la caduta del Murat  e il ritorno di Ferdinando I re della Due Sicilie, Giuseppe Poerio fu costretto ad andare in esilio a Firenze. Ritornato in patria nel 1819, fu uno dei grandi animatori del moto insurrezionale del 1820, a causa del quale il re fu costretto a concedere, il 13 luglio, la costituzione, a seguito della quale Giuseppe fu eletto deputato. Ma, il voltafaccia di Ferdinando I e la reazione austriaca[27] non tardò a venire, inviando un esercito in aiuto al re Ferdinando I.

Ma, mentre gran parte dei deputati si defilava prima dell’arrivo degli austriaci, Giuseppe Poerio, determinato nel suo spirito libertario, riuscì a raccogliere ventisei deputati e a compilare la vibrata “protesta” contro l’invasione straniera e a chiudere il parlamento costituzionale, esclamando alteramente che “può essere incerta la sorte delle armi, ma non può essere incerta mai quella dell’onore”.

 Gli austriaci  - che nel frattempo avevano sconfitto le raccogliticce truppe napoletane inviate dal governo costituzionale, al comando del generale Guglielmo Pepe, a contrastare l’avanzata nemica a Rieti -, giunti a Napoli, attuarono una feroce persecuzione, traendo subito in carcere i liberali napoletani in attesa del confino[29].

 Giuseppe Poerio fu arrestato e confinato, con la sua famiglia, prima a Trieste e poi a Gratz, in Austria[30].

Verso la fine del 1822, a seguito del congresso della Santa Allenza di  Verona, Ferdinando I promulgò un editto per gli esiliati di poter risiedere in luoghi di “loro piacimento” ma, “in ogni caso è loro vietato così il ritorno nel loro paese natale, come il dimorare nell’Italia austriaca o nella Dalmazia”. Giuseppe Poerio, nell’ottobre del 1823, lasciate le gelide terre di Gratz, si recò dapprima nel Granducato di Toscana, nei cui circoli letterari circolavano idee di moderati come Gino Capponi, Francesco Domenico Guerrazzi, Cosimo Ridolfi, Pier Francesco Rinuccini, Giovanni Ginori e Vincenzo Salvagnoli.  Sul finire del 1829 alla moglie Carolina con i figli Carlo e Carlotta, fu dato il permesso di rientrare, prima a Catanzaro, e l’anno seguente a Napoli; mentre a Giuseppe e al figlio Alessandro fu negato il rientro. Giuseppe Poerio, durante il soggiorno fiorentino, era entrato subito in contatto con i maggiori rappresentanti del liberalismo toscano ed altri esiliati, come Giovanni La Cecilia e Pietro Giordani; essi, avuta notizia della rivoluzione francese del luglio 1830, idearono un piano, davvero ingenuo, per persuadere il sovrano a seguire le nuove idee. Tale piano, però, non riuscì per l’intransigenza del primo ministro Torello Ciantelli, il quale espulse dalla Toscana come perturbatori Giuseppe Poerio, Giovanni La Cecilia e Pietro Giordani.

Il Poerio, ancora in esilio, andò prima in Francia e poi a Londra, dove conobbe Giuseppe Mazzini che cercò di attirarlo subito verso il movimento repubblicano; ma egli, rendendosi conto dell’impossibilità e con spirito pragmatico, si fece promotore del partito monarchico costituzionale dei Savoia, entrando così in corrispondenza epistolare con il Cavour.

L' 8 di novembre del 1830 salì al trono il ventenne Ferdinando II il quale, manifestò subito idee nuove, proclamando con un editto l’abolizione dei reati politici e quindi dell’esilio. Giuseppe Poerio, però, non rientrò subito a Napoli, ma si trattenne in Inghilterra fino al 1833, anno in cui ritornò in patria, dove riprese a esercitare l'avvocatura[32], divenendo in breve stimato maestro fra i penalisti napoletani[33]. Non trascurò neanche l’arte scrittoria. Infatti, oltre a pubblicare alcuni testi sulla letteratura francese[34], portò alle stampe anche le sue numerose cause legali[35] che furono apprezzati esempi giurisprudenza per gli avvocati napoletani[36].

Giuseppe Poerio morì a Napoli il 5 agosto 1843.

Il 05 marzo 1882, in sua memoria, fu scoperto il suo busto in Castelcapuano, nel cosiddetto Saloncino degli busti.

Ma se Giuseppe Poerio fu uno dei più grandi personaggi del risorgimento napoletano, i suoi figli non gli furono da meno.

Alessandro, che fu il primogenito, si dimostrò sin da giovane di ingegno vivacissimo e desideroso di apprendere; fu avviato agli studi classici che lo fecero “innamorare della bellezza dell’antica poesia, della grandezza civile di Roma”. Ancora molto giovane, aveva conosciuto il Monti e, durante il soggiorno della famiglia a Firenze, aveva potuto sentire dalla contessa Luisa Stolberg d'Albany il vivo ricordo di Vittorio Alfieri o “avere da Madame de Staël l’indicazione di più vasti campi di studio, di più aperti orizzonti letterari”.

Nel 1820 Alessandro Poerio ebbe un posto nella segreteria del ministero degli esteri che non esitò ad abbandonare subito, non appena scoppiò l’insurrezione napoletana del ’21. Sebbene di salute malaticcia[38], egli pregò ardentemente il padre, forse titubante per la sua giovane età, di lasciarlo partire con le truppe del pepe a contrastare l’invasione austriaca: “Per quell’amore che mi avete sempre mostrato, lasciate che io vada a militare per la patria, e pregate il Generale [Pepe][39] di ricevermi nel sua Stato Maggiore come soldato, dacché solo egli, fra tutti i generali, combatterà davvero, e contro di lui si volgeranno le forze nemiche”. Alessandro fu assegnato ad un battaglione di fanteria comandato dal generale Giovanni Ruffo che, nella battaglia decisiva di Rieti, sebbene inferiore di forze, rigettò più volte gli incalzanti assalti di un reparto della cavalleria nemica, anche se la battaglia si svolse in favore delle forze austriache. Ma la sconfitta non fermò il giovane Alessandro perché accorse subito, assieme a suo zio Raffaele, in difesa di Salerno che ancora resisteva valorosamente alle forze nemiche.

Sconfitti i liberali, mentre Raffaele Poerio fuggiva in Africa, egli seguì il padre all’esilio di Trieste e Gratz, dedicandosi completamente allo studio. Quando, nel 1823, la famiglia Poerio ottenne il permesso per soggiornare in terra italiana, cioè a Firenze, Alessandro intraprese un lungo viaggio in Germania per approfondire i suoi studi filosofici e filologici. Si recò dapprima a Gottingen e, quindi, alle università Konisberg, Gessen, Heidelbergh, Dresda, Monaco, Breslavia in Polonia,  e più volte a Weimar, dove sottopose a Wolfang Goethe le traduzioni manoscritte dell’Ifigenia e della Sposa di Corinto[41], ricevendo gli elogi dello stesso Goethe col quale Alessandro strinse una cordiale amicizia, continuata anche dopo il ritorno in Italia attraverso una corrispondenza epistolare. Raggiunse la famiglia a Firenze nel ’26, quando ancora ventiquattrenne, entrò a far parte del gruppo dell’«Antologia», intrecciando amicizie con intellettuali d’Italia[42], come Pietro Colletta, Carlo Troya, Giovan Battista Niccolini, Giacomo Leopardi, Gino Capponi, Nicolò Tommaseo, Alessandro Manzoni, Giuseppe Giusti (che gli dedicò l’opera Gingillino), Amedeo Giordani e tutti gli altri che componevano il gruppo dell’«Antologia».

Alessandro era molto legato al padre, tanto che, quando Carolina ottenne il permesso di poter rientrare, nel ’29, con i figli a Napoli, egli preferì seguire il padre nel suo esilio a Parigi, dove rivide il Tommaseo che frequentò assiduamente fino al 1835[43].

Ritornato a Napoli, e sebbene esercitasse la professione forense assieme al padre, si dedicò maggiormente alla poesia con la pubblicazione, nel 1843, di una raccolta anonima di Alcune liriche. Nel 1847 si recò a Roma, attratto dalla concessione della costituzione e dalle riforme di Pio IX[44] che gli fecero “sentire” i tempi maturi per un mutamento politico anche nel regno di Napoli, dove, ritornato verso la fine dell’anno, intensificò il suo lavoro per raccogliere, stringere e guidare gli amici che, dopo i moti siciliani (gennaio 1848), si riunivano a casa sua per chiedere con lui e suo fratello Carlo (sebbene questi fidasse poco nel liberalismo del Papa) il ripristino della costituzione del 1820 che essi consideravano sospesa e non cancellata. Ferdinando II, timoroso che il moto siciliano potesse espandersi anche nella capitale o in altre parti del regno, il 28 gennaio, restaurò la costituzione, nel cui nuovo governo entrò a far parte Carlo Poerio, come ministro degli interni, dal quale si dimise perché non condivideva la riforma costituzionale del ministro degli Interni, Francesco Paolo Bozzelli, che piano piano stava sostituendo la vecchia costituzione napoletana del ’20 con quella piemontese.

Frattanto, nel mese di febbraio, la Francia, cacciato il re Luigi Filippo, si dava un governo repubblicano; nel mese di marzo, per evitare le incombenti insurrezioni, l’imperatore Ferdinando d’Austria, concedeva la costituzione; il ducato di Milano, con le sue Cinque giornate (18 - 22 marzo) cacciava gli austriaci che si ritiravano anche dal Veneto, eccetto Verona.

Nel Regno di Napoli, Ferdinando II fece un nuovo governo, licenziando Francesco Paolo Bozzelli e nominando Carlo Poerio ministro della pubblica istruzione.

Carlo Alberto, cui tutta l’Italia guardava come unico re della nazione[45], il 29 marzo, valicava il Ticino e muoveva guerra all’Austria, raccogliendo le prime vittorie a Goito, Monzambano, Borghetto, Valeggio e soprattutto Pastrengo, frail mantovano e il veronese. Gli italiani, pervasi da un forte anelito antiaustriaco, accorsero in migliaia da tutti gli altri Stati ad infoltire l’esercito sabaudo[46].

 Il corpo di spedizione napoletano era costituito da 14.000 volontari del quale Alessandro Poerio, che aveva salutato lo scoppio della prima guerra d’indipendenza come la “tempesta magnifica”, fu uno dei promotori, arruolandosi anche lui, all’età di quarantasei anni, come volontario agli ordini del generale Guglielmo Pepe.

Le sorti della guerra, però, dopo le fasi iniziali favorevoli a Carlo Alberto, si capovolsero in favore del generale Radetzky che, nel frattempo si era rinforzato con altre truppe provenienti dall’Austria, mentre quello di Carlo Alberto si indebolì per il richiamo in patria dei volontari toscani e romani.

I soldati napoletani, di fronte all’incalzare delle truppe austriache si asserragliarono nel forte di Mestre, subito assediato dai soldati austriaci. Il generale Pepe tentò una sortita, cercando si sorprendere il nemico, ma un forte fuoco di sbarramento  li fece indietreggiare.

Alessandro Poerio, però, impavidamente continuò ad andare incontro al nemico incitando i compagni, ma una palla di cannone gli mozzò una gamba. Trasportato all’ospedale di Venezia, l’arto gli andò in pericolosa cancrena.

Così scriveva alla madre e al fratello, infermo in ospedale: “Dalla lettere del generale [47] avrete rilevato quel ch’è avvenuto. Come avrei dato volentieri la mia vita per la patria, così non mi dorrò di restare con una gamba di meno”. Dopo alcuni giorni, sentendosi avvicinare la fine, si mostrò sempre sereno e rassegnato. Poco prima della morte raccomandava al suo generale di “non fidarsi dei re” e al sacerdote che gli suggeriva parole di perdono rispose: “non ho mai odiato nessuno, sento solo fatica ad amare i nemici d’Italia”.

Era il 23 novembre 1848, quando spirò serenamente, come chi ha la coscienza a posto, sicuro d’aver compiuto il proprio dovere fino in fondo.

La città di Mestre, memore del valore dimostrato, gli intitolò quel forte che inutilmente aveva cercato di assaltare.

Dopo la sua morte furono pubblicate altre sue opere e cioè: Alessandro Poerio a Venezia: lettere e documenti del 1848, illustrati da Vittorio Imbriani, pubblicate a Napoli nel 1884; Poesie edite e postume di Alessandro Poerio. La prima volta raccolte con cenni intorno alla sua vita per Mariano D'Ayala, pubblicate a Firenze nel 1852; XCIX Pensieri, curati da V. Imbriani, Napoli 1882; Liriche inedite, a cura di G. Amalfi, Piano di Sorrento 1886; Lettere a Nicolò Puccini, Pistoia 1888; Liriche e lettere inedite, curate da A. U. Del Giudice, Torino 1889; Alessandro Poerio. Il Viaggio in Germania. Il carteggio letterario ed altre prose, pubblicate da B. Croce a Napoli nel 1917; Lettere inedite a Nicolò Puccini, curate da A. Zanelli, in «Rassegna storica del Risorgimento», a. XII, n. 1, 1925; Liriche e frammenti inediti di Alessandro Poerio, curate e pubblicate da Nunzio Coppola a Roma nel 1966[50].

 

Il secondogenito di Giuseppe e Gaetana Poerio fu Carlo che, forse meglio del fratello Alessandro, sembrava disposto a proseguire la via paterna e a raccoglierne l’eredità politica.

I due fratelli differivano fra loro sia fisicamente sia caratterialmente. Alessandro, di fisico malaticcio, ebbe un animo spiccatamente sensibile che, sebbene avvocato anche lui, lo indirizzò di più verso le lettere e la poesia; Carlo, di statura robusta, era pacato e ponderato nelle sue azioni e molto versato alla carriera forense come il padre.

Questa differenza la notò Guglielmo Pepe, esiliato anche lui a Gratz assieme a Giuseppe Poerio, evidenziando l’atteggiamento meditativo e fantasticante del giovane Alessandro, al contrario del realismo di Carlo; sui due giovani fratelli così si esprimeva il Pepe: [Alessandro], “quando non è sui libri, è sempre fuori del suo elemento e fa naufragio[51] nelle più ovvie e giornaliere occorrenze della vita” con “l’attività del signor don Carlino”.

Mentre Alessandro era convinto che il cambiamento politico poteva avvenire solo con le armi, con la “guerra tremenda”, “tempesta magnifica”[53], Carlo ebbe sempre presente che la riforma di Napoli si poteva realizzare soltanto attraverso un governo costituzionale, frutto dell’emancipazione  popolare e delle conseguenti trattative con il re, in ciò costretto dagli eventi generali e non particolari[54].

Carlo, come il padre, aveva l’avvocatura nel sangue e tale attività gli valse, oltre che a dargli fama di grande giurista, anche per fare conoscenza e acquisire dimestichezza con il ceto medio napoletano. Egli fu un profondo conoscitore di diritto costituzionale e internazionale, oltre che di storia parlamentare e dei trattati, che lo fecero eccellere nelle dispute del parlamento.Rientrato dall’esilio di Firenze a Napoli, nel 1829, insieme alla madre Carolina e alla sorella Carlotta, intraprese subito l’attività di avvocato e, pur interessandosi di politica, non cospirò mai contro il potere costituito, ma cercò di modificarlo entro i dettami della legalità. Così dichiarava, nel 1850, in un suo processo contro le accuse del pubblico ministero che lo incolpava di cospirazione: “Io lealmente e altamente mi professo liberale; e mi fo pregio di aver consacrato la mia vita al pacifico trionfo del reggimento costituzionale”. E così scriveva al fratello in una lettera del ’48: “Tu sai che io ho fatto le mie prove come cospiratore, ma quando ogni altra via era chiusa”.

Alessandro Poerio

Queste “prove” di cospiratore Carlo le fece nel gennaio del ’48 quando, nella speranza di convincere il re verso riforme liberali, a casa sua si riunivano i moderati napoletani a studiare memoriali e proclami da rivolgere al re, e verso il quale Carlo stesso nutriva rispetto sia per averlo fatto tornare a Napoli nel 1829 sia per le cause da lui patrocinate, quando era ricorso alla richiesta di grazia del suo difeso De Antonellis o dell’ufficiale Giacomo Longo o quando patrocinò la causa delle popolazioni del Sarno, ricevendo sempre benevoli accoglienze.

Mentre Alessandro era repubblicano[57], Carlo fu monarchico convinto e, fino al 1848, non considerò altra monarchia che quella borbonica[58]; da ciò la sua speranza verso il re, le sue iniziative per persuaderlo e tentare di uniformare il governo borbonico, nelle istituzioni e nel pensiero, alla nuova concezione del diritto che aveva già conquistato gran parte d’Europa.

Per questo suo modo di pensare ed agire egli fu imprigionato tre volte: nel novembre del ’37, allo scoppio dei moti di Siracusa, Catania, Cosenza e Penne; nel marzo del ’44, durante la rivolta di Cosenza e, nel settembre del ’47, durante la sommossa di Reggio e Messina: ossia, ad ogni accenno di tumulti in qualsiasi parte del regno, veniva sospettato come ispiratore, pur non essendovi le prove.

Frattanto, mentre Carlo veniva arrestato perché sospetto dei moti di Reggio e Messina, tutta l’Italia esultava alle riforme di Pio IX: lo stesso Alessandro era accorso a Roma per inneggiare al papa.

A Napoli la madre Carolina pregava gli amici di Carlo, che l’aveva consigliata in tal senso, di effettuare una raccolta di firme non per chiedere la libertà del figlio ma per la concessione di uno Statuto. E mentre Palermo, sull’onda insurrezionale di Reggio e Messina, chiedeva la costituzione, nella capitale incominciavano a manifestarsi le prime dimostrazioni.

Il re, che non viveva certamente sonni tranquilli, con un editto abolì i reati politici e, quindi, Carlo Poerio veniva liberato.

Il 27 gennaio 1848 fu fatta a Napoli un'imponente dimostrazione davanti la reggia e, siccome pioveva, furono visti molti ombrelli tricolori. Al re intanto venivano presentate tre petizioni promosse, una da Carlo Poerio e da Mariano d'Ayala, la seconda dal principe di Torella e dall'avvocato Francesco Paolo Ruggero, la terza da Ruggiero Bonghi, con le quali si chiedeva la Costituzione.

Intanto, Francesco Paolo Bozzelli, nominato ministro dell'Interno,   lavorava all’incarico di compilare un nuovo Statuto, facendo nuove nomine, fra cui quella di Carlo Poerio a Direttore di polizia. Il 24 febbraio, nella Chiesa di S. Francesco di Paola, il re giurò solennemente osservanza alla costituzione[59]. Poco dopo, però, Carlo (a cui il 23 novembre 1848 era morto il fratello Alessandro) non approvando i metodi della polizia borbonica si dimise e subito dopo fu nominato ministro dell’Istruzione.

Il 12 marzo del 1849, Ferdinando II con un colpo di stato, abolì la costituzione e ripristinò gli antici sistemi autoritari, costringendo i liberali a incontrarsi di nascosto e a cospirare contro il governo.

Fu allora che Carlo Poerio, sempre rispettoso verso la monarchia borbonica, pur avendo cercato di modificarla, se ne distaccò completamente non avendo più fiducia nei suoi rappresentanti e concepì l’idea di costituire una vasta cospirazione che portasse non più ad un governo costituzionale del Regno di Napoli ma ad uno stato unitario italiano, fondando la setta l’Unità Italiana.La reazione borbonica, però, aveva incominciato già il suo corso ed il Poerio, anziché fuggire come avevano già fatto altri, aspettò serenamente che la repressione politica facesse il suo corso. In verità, dato il prestigio che Carlo ormai suscitava, i funzionari borbonici speravano che egli fuggisse da Napoli, ma egli, con l’alto senso del dovere che lo contraddistinse sempre, restò nella capitale e, il 17 luglio 1849, con l’accusa di cospirazione settaria fu arrestato e rinchiuso nelle segrete di Castel dell’Ovo, da dove, dopo qualche tempo fu condotto al penitenziario di Procida assieme ad altri quarantadue imputati, fra i quali Luigi Settembrini, il barone Nicola Nisco, il duca Sigismondo Castromediano e il conte Michele Pironti.

Carlo Poerio

 L’1 febbraio 1851, conclusa la causa contro i componenti dell’Unità Italiana,  Carlo fu condannato ai ferri per ventiquattro anni e fu ferrato assieme al conte Pironti e condotto al bagno penale di Nitida e poi in quello di Ischia. Il 2 febbraio 1852, i due furono trasferiti nel carcere di Montefusco, soprannominato lo Spielberg dell’Irpinia per il degrado nel quale venivano tenuti i carcerati. I due furono infine portati nel penitenziario di Montesarchio, e come unico atto di clemenza ebbero ognuno una catena legata alla palla di ferro, in sostituzione del ceppo che fino allora li aveva tenuti legati l’uno all’altro.

Bisogna fare notare che la madre Carolina non seppe mai che Carlo era tenuto ai ferri e le fu fatto credere che era detenuto nell’isola di Ischia. Infatti lei una volta ebbe a confidare ad una sua amica: “Ei [Carlo] non mi chiede mai scarpe, non deve camminare mai”; e l’amica per rincuorarla: “Se le farà fare in Ischia”. Carolina, scrollando il capo, aggiunse: “Vedi, questo seno ha portato nove figlioli, e non me ne trovo nessuno vicino a me mentre che muoio: non ho neppure Carlotta, che è in esilio col marito e con quei cari bambini. Sono proprio stanca!”.

Carolina Sossisergio, moglie di Giuseppe Poerio, morì a Napoli il 1852, assistita da pochi e fedeli amici.

Carlo rimase nel carcere per otto lunghi anni e all’Intendente della provincia di Avellino che, visitando il penitenziario, gli aveva chiesto come stesse in salute, così rispose: “Fo questa cura di ferro da parecchi anni, e mi sento più forte”.

Frattanto, il governo borbonico, le cui galere erano colme di detenuti politici, veniva additato dagli Stati europei come “la negazione di Dio” e, per Ferdinando II un sì alto numero di carcerati era anche un impaccio. Il re pensò di risolvere il problema concludendo un trattato con la repubblica argentina che prevedeva l’invio dei detenuti in quella terra a spese del governo napoletano con l’impegno, da parte argentina, di dare loro un pezzo di terra da coltivare. Così, nei primi giorni del gennaio 1859, un decreto reale commutava a sessantasei detenuti politici la pena dell’ergastolo ai ferri in esilio perpetuo dal regno, seguito da un altro rescritto ministeriale che sessantasei detenuti, fra i quali Carlo Poerio ed i suoi amici, dovevano essere trasportati a New York. Imbarcati il 17 gennaio furono imbarcati sulla nave Stromboli per essere trasportati a Cadice da dove, poi, con un battello americano, avrebbero raggiunto New York. Sennonché, il figlio del Settembrini, Raffaele,  saputo che il padre e gli altri detenuti, una volta giunti a Cadice, avrebbero dovuto poi trasbordare su un mercantile americano, raggiunse la città portoghese e, sotto mentite spoglie, si fece assumere dal comandante del battello americano come cameriere e, con suo padre e gli altri, meditò come porre termine al viaggio. Dopo alcuni giorni, dopo aver fatto presente che, una volta giunti in America, avrebbero fatto presente alle autorità portuali il comandante li aveva trasportati contro la loro volontà e, quindi, di accusarlo di tratta degli schiavi, concordarono con il comandante il pagamento di cinquemila “colonnati”[62] per essere sbarcati a Lisbona e non a New York; ma, poiché il comandante pretendeva altri soldi, gli esuli fecero vedere due pistole che aveva portato con sé il figlio del Settembrini, facendo credere di essere armati. Il capitano che disponeva di un equipaggio di poche persone, di fronte ai sessantadue condannati si convinse a sbarcare gli esuli in Inghilterra, a Queenstown nella baia di Cork, accolti benevolmente dalla popolazione locale, prima , e a Bristol, poi.

In Italia, frattanto, nel 1859 era scoppiata la seconda guerra d’indipendenza, la Lombardia, l’Emilia Romagna e la Toscana si erano unite al Piemonte in un unico Stato.

Carlo Poerio, ritornato in Italia, fu eletto deputato di Arezzo al parlamento subalpino.

Con la conquista del Regno di Napoli da parte dei garibaldini ed il conseguente plebiscito (21-22 ottobre 1860) per l’unificazione al Regno d’Italia, Carlo Poerio fu eletto deputato di Napoli al primo Parlamento italiano. Sebbene Camillo Cavour lo avesse invitato più volte a far parte del governo, Carlo rifiutò sempre preferendo fare il semplice deputato. A Torino viveva in una semplice cameretta, mentre a Napoli era ospitato da Emilia Pandola[63], amica di sua madre, e poi da Gaetano Zir, mentre a Firenze era ospitato da Ferdinando Fonseca.

I napoletani, però, non gli perdonarono di aver rifiutato il ministero offerto da Cavour e, accusandolo di non aver per questo difeso gli interessi della città, accorsero in massa sotto la casa di Emilia Pandola, accusandolo di aver tradito e venduto Napoli. Per trarre d’impaccio la nobildonna napoletana che amorevolmente lo aveva ospitato, egli fu costretto a lasciare la casa e andare ad abitare da Gaetano Zir. Ma le denigrazioni non finirono: presentatosi nuovamente alla successiva competizione elettorale, i suoi concittadini non lo elessero e scrissero sui muri: “Non eleggete Carlo Poerio, perché è capo della Consorteria, e vergogna di Napoli”. Offertagli la nomina  di senatore, egli rifiutò dicendo che l’avrebbe accettata solo con il consenso del popolo. Il secondo collegio di Napoli lo elesse a pieni voti e fu deputato fino alla morte, avvenuta per arresto cardiaco a Firenze il 28 aprile 1867, alle ore 16.30.

Gli scritti di Carlo Poerio riguardano per lo più l’attività politica e quella prettamente professionale di avvocato. Per la conoscenza bibliografica delle sue opere si rimanda all’Appendice del volume.

Parlando della famiglia Poerio non si può sottacere di Carolina Sossisergio, moglie di Giuseppe Poerio.

Finora l’abbiamo conosciuta solo attraverso alcuni brevi riferimenti, parlando di Giuseppe, Alessandro e Carlo.

  L’abbiamo vista ventunenne fidanzata dell’ardente “giacobino” Giuseppe Poerio, del condannato a morte dai Borboni, del carcerato nell’isola di Favignana, della fedele compagna d’esilio. L’abbiamo ancora vista triste e rassegnata durante la prigionia di Carlo e certamente la immaginiamo disperata per la morte del giovane Alessandro.

Non l’abbiamo vista, però, come moglie dell’avvocato affermato del foro di Napoli, del magistrato autorevole, del commissario e del consigliere di Gioacchino Murat, del deputato del Regno.

Sappiamo però che la baronessa Poero fu fatta segno di riverenza e ammirazione nel suo esilio toscano per la costanza del suo carattere, per la sua approvazione alla “linea” risorgimentale dei suoi familiari.

La contessa d’Albany, nel 1818, era molto dispiaciuta perché l’excellente femme di Giuseppe Poerio, dont le coeur est d’accord avec le paroles, lasciava la Toscana.

L’educazione dei figli  - come si è detto ebbe ben dodici figli -  e il costante amore per il marito occuparono tutti i suoi pensieri, fino a giustificare anche alcuni comportamenti del marito a Firenze pochi confacenti.

Dal carteggio del Capponi sappiamo che Giuseppe cadde nel vizio del gioco ed il Colletta riferisce che Carolina lo giustificava dicendo che era la “necessità del fare” a condizionarlo.

Carolina Sossisergio

Se Giuseppe, Alessandro e Carlo vissero in prima persona le lotte e le battaglie per la libertà, Carolina non fu da meno. Essa fu compagna fedele del marito, col quale ne condivise amorevolmente le idee, le lotte, le sofferenze e le gioie. Fu madre premurosa a temprare i suoi figli alle prove cui sarebbero andati incontro.

Nel 1843, quando perse “il suo compagno di tanti palpiti e di tante sventure, ma anche di tante nobili gioie” fu sul punto di morire “per aver voluto  - come scriveva Alessandro al Capponi -  con troppo virile animo reprimere in fondo al cuore l’angoscia, come stimava convenisse alla vedova di tanto uomo”.

E quando, l’anno seguente, Carlo veniva condotto in galera per la seconda volta, Alessandro era tutto abbattuto vedendole manifestare la sua “gran forza d’animo”, ma che intimamente le arrecava una grande devastazione.

Appena quattro anni dopo la situazione peggiorò ancora di più, quando Carlo si trovava in prima linea dell’agone politico, Alessandro andò a combattere a Venezia, il genero Paolo Emilio Imbriani si tovò anche lui nello scontro politico, il cognato Raffaele, rientrato in Italia dopo ventisette anni d’esilio, si mise al comando di una brigata lombarda contro gli austriaci, e il nipote Enrico, figlio superstite di Leopoldo Poerio, partì da Napoli luogotenente nel battaglione di volontari napoletani, rimanendo  ferito nella battaglia di Mantova.

Con grandezza d’animo, così scriveva alla cognata Teresa de Nobili di Catanzaro, moglie di Raffaele: “Io sono contenta, anzi orgogliosa che tutto ciò che ha nome Poerio si adoperi per la buona causa. Vostro marito, Alessandro ed Enrico in Lombardia, Carlo in Napoli; e Carlotta pure, per mezzo di suo marito[68], rappresenta la sua parte”.

Avveduta per natura[70] ed ormai esperta delle tante vicende vissute in prima persona, coglieva in pieno il significato dell’intreccio delle rivoluzioni, repressioni e guerre che in quel periodo furono così intense e ben sapeva che il lato buono non stava solo da una parte; così scriveva, nel luglio 1848, ad Alessandro dichiaratamente contrario alla monarchia: “Speriamo che la lotta tra Popoli e Sovrani sia alla fine decisa favorevole a chi meriterà la protezione divina, perché orrori si commettono da ambo i lati”[71] e così scriveva al giovane nipote Enrico in Lomardia: “Caro Enrico, sei nuovo in questo genere di affari! Tutta l’Europa è in trambusto; la lotta sarà orrenda, universale e lunga: bisogna aver coraggio, e fiducia nella Provvidenza”[72]. Come suo marito Giuseppe e suo figlio Carlo, disprezzava gli estremisti che “spingevano le cose all’eccesso” e gli sciocchi i quali “credevano che bastasse gridare per ottenere anche il di là del possibile” e i “tristi e retrogradi” che sconvolgevano più dei veri liberali, mentre gli esaltati si tiravano indietro al momento del pericolo, come successe a Napoli il 15 maggio 1848, quando questi abbandonarono sulle barricate le poche centinaia di liberali a battersi. Ed in questa fitta corrispondenza con i suoi essa li confortava tenendo loro presente che “ognuno risponde delle proprie azioni” ed anzi è più meritevole colui “che in mezzo a tanta corruzione si mantiene puro e non somiglia agli altri”[73].

Ormai settantenne, per il suo buono stato di salute scriveva alla figlia Carlotta, esule a Nizza: “Sarà fortuna, sarà disgrazia questa mia buona salute? Debbo vedere tristi o buone cose?”. E, purtroppo vide cose tristi. Dopo le prime vittorie di Carlo Alberto piene di speranza, seguirono i rovesci del suo esercito, il ritiro degli aiuti napoletani, la resa di Milano ed, infine, la ferita e poi la morte di suo figlio Alessandro. Così scriveva a suo figlio Carlo che, nel febbraio del 1850, dal penitenziario di Montefusco veniva condotto davanti ai giudici: “Carissimo figlio, spero che questa mane sarai chiamato per fare il tuo costituto: il quale senza dubbio sarà dell’uomo d’onore, come dev’essere il figlio di Giuseppe Poerio e mio”[74].

Nel frattempo, il genero Paolo Emilio Imbriani fu costretto ad andare in esilio a Nizza, subito seguito da sua moglie Carlotta e dai suoi figlioletti, e Carolina rimaneva sola assistita dall’affetto dei pochi amici e dalla cognata Atonia Poerio, ritiratasi in un convento di Napoli, che quando poteva usciva dal monastero per andare a trovarla.

Carolina Sossisergio Poerio, ammalatasi, morì serenamente assistita dal conforto e dall’amore di pochi amici senza poter rivedere i suoi familiari.

La città di Lecce, memore della grandezzaa di questa donna, le dedicò, oltre il nome di una via, anche una scuola, l’attuale Liceo pedagogico “Carolina Sossisergio Poerio”.

Carlotta Poerio fu l’ultima nata di Giuseppe e Carolina ed anche lei subì le traversie familiari.

Nel 1838, dopo il ritorno a Napoli, all’età di trentun anni andò in sposa a Paolo Emilio Imbriani, conosciuto durante l’esilio in Toscana[75], dove si era rifugiato il padre Matteo assieme a Giuseppe Poerio, dopo l’arrivo degli austriaci a Napoli nel 1821[76].

Carlotta, già percossa duramente dai lunghi anni d’esilio, dal dolore della morte del fratello Alessandro e della madre, dalla pena del fratello Carlo condannato all’ergastolo, dalla sofferenza per l’esilio del marito e dal sequestro di ogni bene di famiglia, si rifuggiò nell’educazione dei suoi figli. “Io ho il coraggio di resistere a tutte le sventure che ci circondano  - scriveva nel 1848 al fratello Alessandro -  pel pensiero che mi debbo ai miei figli e che mi corre l’obbligo di educarli virilmente, di renderli insomma uomini, merce di cui v’è difetto ne’ tempi presenti, tempi di corruttela e di viltà”.

Aveva perfettamente appreso questi concetti morali e sociali e il senso del sacrificio dalla madre Carolina; ma mentre questa, oltre che nell’amore familiare, era forte anche nel carattere, mostrando sempre serenità ed incoraggiamento contro le avversità, Carlotta fu madre fragile e trepidante per la sorte dei suoi giovani figli.

Dal suo matrimonio nacquero: Geppino, malaticcio, Vittorio, Matteo, Giorgio e Caterina[77].

Mentre Geppino cresceva in maniera appartata, gli altri tre fratelli crebbero in maniera contrastante. Tutti e tre concepivano la vita come deduzione da regole assolute e, quindi, rigidi nel modo di concepirla: Vittorio, a diciannove anni, vedeva dappertutto vergogna e viltà, tanto da provare ribrezzo per gli italiani perché corrotti; Giorgio, sedicenne, non riusciva a tollerare i compagni dell’accademia militare di Torino perché, secondo lui, gente abietta; Matteo divenne famoso per i suoi giudizi assoluti tanto che, per esempio, il vedovo che passa a seconde nozze, a suo dire, era uomo ignobile.

Ovviamente, questa concezione strettamente rigida della vita si ritorceva anche sui fratelli Imbriani, invano ammoniti dai genitori verso un’idea più moderata della vita[78].

Questi contrasti di tendenze familiari erano causati anche dalla loro giovane età, oltre che dai dettami della pura ragione e, quindi, dall’indipendenza del proprio pensiero. Vittorio che allora era repubblicano e odiava i re, diventò poi monarchico, avendo in odio i democratici e giudicando severamente suo zio Carlo.

Matteo, ufficiale dei granatieri di Sardegna e monarchico, andando in casa della zia Nina Poerio[79], che aveva sposato Francesco Nicotera, e porgendo la mano a Silvia Pisacane, fu da questa accusata di “servire il Tiranno”.

Matteo era il più giovane e il prediletto di Carlotta, ma era anche il più irrequieto e indomabile.

Vittorio, che nel 1859 si trovava a Zurigo per completare i suoi studi, non esitò a tornare in Italia, contro il volere di suo padre, per partecipare alla seconda guerra di Indipendenza, pur odiando Napoleone III ed lanciando insulti contro il “canagliume” dei suoi compagni di reggimento. L’anno dopo non esitò a raggiungere Garibaldi e, nella battaglia di Castel Morrone, fu seriamente ferito e condotto prigioniero prima a Capua e poi a Gaeta.

Nel 1866 i tre fratelli Imbriani erano a Napoli: Matteo ufficiale alla guarnigione della città, Vittorio si era ormai convertito alla monarchia, Giorgio diciottenne sempre più repubblicano. E tutti e tre si arruolarono nell’esercito di Garibaldi nella spedizione del generale Enrico Cosenz.

Una lettera di Carlotta al fratello Carlo[80]  - nella quale pregava il fratello di cercare di convincere il marito Paolo Emilio Imbriani di rispettare la volontà dei figli, contrario alla loro partenza per la guerra, -  datata 3 maggio 1866, apprendiamo che essa aveva “pochi mesi di vita”, quindi, era gravemente ammalata. In una successiva lettera del 9 maggio dello stesso anno, indirizzata sempre al fratello Carlo, scriveva che era “il sesto mese ch’io passo i miei giorni sopra una poltrona”.

Carlotta Poerio morì pochi mesi dopo.

Stemma dei Poerio prima della fondazione di Cerva (1704).

Stemma dei Poerio dopo la fondazione di Cerva (1704).

ARMA: d’azzurro al capriolo d’argento accompagnato nel capo da 2 stelle di 6 raggi d’oro e nella punta da una rosa rossa.

 


[1] Era figlio di Gerolamo, fratello di Francesco Poerio.

[2] Rocco Cristiani aveva acquistato questi terreni da Ferdinando Cosentino il 14 novembre 1717 per ducati 300, rogitati dal notaio Ferdinando La Russa (vedi in ASCZ, Notaio La Russa, ad annum) e lasciati in eredità da Clelia Cosentino il 18 agosto 1691 a rogito del notaio Antonio Patriotta di Cropani e rogitati ancora il 20 ottobre 1717 dal notaio Domenico La Porta di Cropani.

[3] Era rimasto vedovo di Rosa Poerio, dalla quale aveva avuto una figlia di nome Giovanna, andata in sposa a Ignazio Maiorana di Catanzaro (1749).

[6] Era figlia di Rosa e Alfonso Poerio.

[9] Aveva un altro fratello minore di nome Gregorio.

[10] Era stato cavaliere di Malta.

[14] Fu uomo di una certa cultura che “si dilettava di lettere, e talvolta mandava alle stampe orazioni commemorative e altri piccoli lavori”.

[16] Fra i suoi maestri vi fu il matematico e filosofo Vincenzo de Filippis, ministro della giustizia e patriota, morto sul patibolo della reazione borbonica.

[19] Il re Ferdinando IV di Borbone, con la caduta di Napoli in mano degli insorti, il 22 gennaio si rifugiava in Sicilia, sotto la protezione delle navi da guerra del comandante inglese Acton.

[20] I francesi, nel 1978, avevano occupato lo stato del Vaticano.

[21] L’ex regno di Napoli fu ripartito in 12 “dipartimenti”. In Calabria vi erano quello del “Crati” che ricalcava grasso modo la Calabria Citra, con capoluogo Cosenza, e, quello della “Sagra” che comprendeva la Calabria Ultra, con capoluogo Catanzaro.

[22] Molti ritengono che a piantare l’albero della libertà fosse stato Alfonso, padre di Gerolamo. Ciò è inesatto perché Alfonso, nel 1799, sarebbe stato ultra novantenne, dal momento che egli nacque certamente prima del 1700, dato che nel 1712 aveva sposato la cugina Rosa Poerio. Per quanto riguarda la piantagione dell’albero esso è tuttora esistente presso la piazzetta Margherita.

[24] Condannato al carcere a vita nell’isola di Favignana; tale pena, però, fu subito commutata alla condanna sui pontoni delle navi inglesi per ben nove anni.

[25] Prima della capitolazione definitiva della città, i patrioti cercarono di trattare con il cardinale il quale promise salva la vita a patto che i rivoltosi salissero spontaneamente sulle navi inglesi per essere condotti nelle colonie americane. Giuseppe Poerio e gli altri capi rivoltosi accettarono l’offerta e si consegnarono al Ruffo. Gli altri carcerati erano Mario Pagano, Domenico Cirillo, Francesco Conforti, Pasquale Baffi Baffi, Giuseppe Logoteta, Gabriele Mantohné, il matematico Annibale Giordano e altri.

[26] Era questa una grotta nella quale si scendeva dal castello tramite una lunga scala scavata nella roccia, con poca luce, fredda e umidissima.

[27] L’Austria, a seguito della sconfitta napoleonica, uscì dal congresso di Vienna come la potenza militare d’Europa.

[29] Furono tutti condotti nelle terre dell’Austria.

[30] Il fratello Raffaele, che aveva abbracciato la carriera militare raggiungendo il grado di colonnello, partecipò alla battaglia di Rieti e alla resistenza di Salerno contro gli austriaci, da dove fuggì in Africa, poi in Spagna ed infine in Francia, arruolandosi in quell’esercito.

[32] Così scriveva il giovane Francesco de Sanctis: “Quando Giuseppe Poerio, reduce, perorò la sua prima causa, una folla enorme trasse a sentirlo. Si diceva:- Andiamo a sentire il grande oratore -; ma sotto c’era anche la simpatia per l’uomo politico”: 

[33] Fu circondato da uno stuolo di discepoli, tra i quali Giuseppe Pisanelli, Leopoldo Tarantini, Giovanni Manna, Giuseppe Miraglia ed altri, tutti divenuti più tardi insigni avvocati e magistrati.

[34] Di lui ci sono pervenuti: La France litteraire, ou Les prosateurs et les poetes francais: depuis Pascal et Malherbe jusqu'a nos jours. Lectures choisies avec introduction, notices biographique et notes explicatives par Joseph Poerio, Turin 1872; La France litteraire : morceaux choisis des principaux escrivains francais depuis Malherbe et Pascal jusqu'a nos jours avec introdction, notices biographiques et notes explicatives, par Joseph Poerio, Naples 1885 ; Nuovo corso di lingua francese ad uso delle scuole italiane ...: Pronuncia,lettura, grammatica, temi graduati ed esercizii di sintassi, vocabolario delle voci usuali,ecc., Libraio-editore, Napoli [s.d.]. Scrisse anche alcune liriche, andate perdute.

[35] Per il loro numero, si rimanda all’Appendice del presente volume.

[36] Fu anche amico e frequentatore di madame de Savigny, Alphonse de Lamartine, Leopoldo Cicognara, Vincenzo Salvagnoli, Rosselini ed altri pensatori del tempo.

[38] Era miope ed un pò sordastro.

[39] Il generale Pepe era originario di Squillace e, quindi, conosceva molto bene la famiglia Poerio della quale era ottimo amico.

[41] Le due opere furono scritte da Goethe.

[42] Punto di incontro era a il “Gabinetto Scientifico-Letterario aperto da Giampietro Vieusseux nel 1820, dal quale nacque poi, l’anno seguente, il gruppo dell’«Antologia».

[43] Alessandro, quando fu tolto il veto dell’esilio al padre (1833) preferì restare altri due anni in Francia per approfondire gli studi.

[44] Pio IX, al secolo Giovanni Mastai, fu il primo a concedere la costituzione, seguito subito dopo da Carlo Alberto. A poco a poco, anche gli altri Stati italiani imitarono Pio IX.

[45] Era salutato come la spada d’Italia.

[46] Nel 1847, Carlo Alberto, Pio IX e Leopoldo II avevano concluso la Lega Italiana che, pur avendo carattere commerciale, legavano il Regno di Sardegna, lo Stato Pontificio e il Granducato di Toscana il un’alleanza più salda, come in effetti si dimostrò allo scoppio della prima guerra d’indipendenza: la Toscana inviò un corpo di volontari di 5.000 uomini e lo Stato Pontificio di 17.000.

[47] Guglielmo Pepe.

[50] Per una bibliografia su Alessandro Poerio, vedi l’Appendice del presente volume.

[51] Contrasta.

[53] Alessandro considerava il re, adottando il verso tassesco, “d’ogni malvagio consiglier peggiore”.

[54] In questa determinazione, forse, era giunto per l’isolamento nel quale si erano trovati i rivoluzionari della Repubblica Napoletana del ’79 di fronte alle masse incolte dei sanfedisti del cardinale Ruffo, inneggianti a Ferdinando I di Borbone anziché ad un governo liberale e repubblicano.

[57] Sul punto di morte raccomandò al generale Pepe di “non fidarsi dei re”.

[58] Alessandro, invece, aveva salutato con gioia la discesa in campo di Carlo Alberto di Savoia.

[59] In seguito disse che aveva concesso la costituzione “per imbrogliare i riformatori d’Italia”.

[62] Moneta dell’epoca.

[63] Egli dovette vendere la casa di Napoli, sita in via s. Teresa, per i debiti accumulati  durante gli anni d’esilio di tutta la sua famiglia.

[68] Paolo Emilio Imbriani.

[70] Anche quando era giovane fidanzata di Giuseppe Poerio fu l’unica di tre sorelle a non tagliarsi i capelli secondo la moda giacobina del tempo.

[71] B. CROCE, Una famiglia …, cit., p. 76.

[72] B. CROCE, Una famiglia …, cit., p. 76.

[73] B. CROCE, Una famiglia …, cit., p. 76.

[74] B. CROCE, Una famiglia …, cit., p. 79.

[75] Fu l’unica dei tre figli di Giuseppe Poerio a sposarsi.

[76] Il barone Matteo Imbriani fu uno dei deputati che sottoscrissero la protesta del parlamento napoletano, preparata da Giuseppe Poerio, contro l’entrata a Napoli delle truppe austriache. Paolo Emilio Imbriani, oltre che politico moderato, fu anche studioso di scienze giuridiche, letterato e poeta.

[77] Morì giovane nel 1859.

[78] In verità questa concezione i tre fratelli l’appresero dal padre Paolo emilio, anche se i suoi figli la esasperarono in maniera  molto eccessiva. Paolo Emilio Imbriani, intendente di Avellino nel 1848, si dimise protestando pubblicamente contro l’inerzia del governo che frapponeva ostacoli ad ogni opera buona; da ministro si dimise per “la visibile malafede del re”, tergiversando quando si dovevano inviare i volontari napoletani contro l’Austria. Per questo suo modo di vedere si guadagnò anche una condanna a morte che lo costrinsero all’esilio.

[79] Era figlia di Raffaele, fratello di Giuseppe.

[80] Era stato eletto deputato.

 

 

 

15 LUGLIO 2003

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