I
CONTRASTI TRA CURIA VESCOVILE E CURIA CIVILE
La storia feudale è abbastanza ricca di
avvenimenti che hanno caratterizzato le due maggiori forze di potere
dell’epoca: la Chiesa e lo Stato, che per Belcastro erano rappresentate dalla
curia vescovile e da quella civile e che, in sostanza, erano personificate dal
vescovo e dal feudatario pro tempore.
Oltre gli interessi religiosi e sociali, quelli
che caratterizzarono di più la mensa vescovile
e quella civile furono di natura economica.
Spesso accadeva che il feudatario prendesse in
fitto i terreni della chiesa e, poi, non intendesse - per ragioni
particolari - saldare il canone pattuito; ma poteva succedere anche il
contrario: in una annata particolarmente feconda, ad esempio, la mensa vescovile
spesso pretendeva più del pattuito. Ciò accadeva per la precarietà dei contratti
di affitto che difficilmente ne stabilivano con precisione le clausole, ma
lasciavano spazio ad interpretazioni personali e di comodo, anche perché quasi
sempre erano semplicemente patti verbali.
Un altro contrasto tra i due poteri locali era
sovente causato dal feudatario che, per la vita dispendiosa che conduceva,
non riusciva a mantenere fede agli impegni presi e, quindi, le questioni che ne
scaturivano, anziché essere smussate, generavano in liti che, a loro volta,
sfociavano in soprusi a volte violenti. Quest’ultimi, spesso, erano favoriti
dalle lunghe assenze dei vescovi dalla sede belcastrese, che veniva a trovarsi
in uno stato di abbandono del quale ne approfittava il feudatario per
impossessarsi di diritti non suoi. Perciò, i contrasti fra la curia vescovile e
quella civile accadevano frequentemente, specie per un paese come Belcastro, la
cui sede vescovile, per la sua precarietà economica ed ambientale, era
considerata dai vescovi ivi assegnati, sede “transitoria”.
Il primo episodio documentato che ci è pervenuto
riguarda il vescovo Leonardo Levato (1518 - 1533),
oriundo di Taverna, e il conte di Castiglione Cosentino, Alvise d'Aquino,
discendente del ramo di Belcastro,
che aveva preso in fitto il feudo da sua zia Costanza d’Avalos d'Aquino.
Il vescovo esercitò le sue funzioni “per plures
annos episcopatu et illius fructibus violenter spoliato committitur officium
conferendi ordines in Urbe”, come è riportato in una nota della Hierarchia
catholica di Konrad Eubel.
Ciò significa che il conte Alvise si era
appropriato di molti beni della mensa vescovile, cioè di terreni, entrando in
lite con il vescovo Levato. La lite fra i due dovette essere molto accesa, dal
momento che il prelato fu costretto a soggiornare a lungo a Roma, presso
l’ordine religioso dei domenicani, cui apparteneva.
Certamente, sia prima che dopo questo episodio, i
contrasti fra vescovi e feudatari furono molto frequenti, anche se per la
maggior parte sono rimasti sconosciuti.
Il secondo episodio, a noi pervenuto, è
quello fra il vescovo roglianese Gerolamo Ricciulli (1616 - 1626) e il barone
Francesco I Sersale. Il prelato, che era “doctissimus juris consultus” -
sia per la sua cultura sia per la sua giovane età-
incominciò a rivendicare alcune usurpazioni terriere che i feudatari avevano
compiuto fino allora per la lunga assenza dei vescovi precedenti (1609 - 1627).
Lo scontro più forte, però, tra la curia vescovile
e quella civile si ebbe durante il presulato di monsignore Carlo Gargano (1672 -
1683) ed il duca Carlo I Caracciolo, o meglio ancora, con il suo fratellastro
Domenico, fittavolo del ducato.
Il vescovo, infatti, così scriveva al Nunzio
apostolico di Napoli in una sua lettera-esposto:
“Carlo Gargano, vescovo di Belcastro, venendo
giornalmente in occasione di immunità ecclesiastiche travagliato da D[on]
Domenico Caracciolo, fratello del Duca e affittatore di detta città, a segno che
doppo l’impedirli la coltura dei Beni della Mensa con ordinare ai suoi vassalli
che non si servono, non ha mancato macchinare alla vita dell’oratore, contro cui
ha concepito odio implacabile per l’immunità e difesa della sua chiesa et
ecclesiastici, dei quali si ha per forza presi i frutti dei loro beni in danaro
tale che si sono ridotti a scorno del loro carattere andare mendicando. Supplica
però umilmente l’E. V. di una lettera d’ordine di N. S. al Sig. Viceré di
Napoli, a finchè protegga l’Oratore con far rimuovere detto dittatore da quella
città, perché altrimenti saranno irreparabili le ruine”.
Come andò a finire non ci è dato sapere.
Anche il vescovo Giovanni Emblaviti (1687 - 1722)
intraprese una lunga e aspra lotta con il duca Fabio Caracciolo, figlio di
Carlo, per il recupero dei beni della mensa. Nella sua relazione vescovile del
16 maggio 1695
riportava che, in quell’anno, il reddito della chiesa era stato di appena ducati
460 anche per l’abuso dei “baronaria onera”,
contro i quali il prelato incominciò una vera e propria battaglia per il
recupero dei diritti ecclesiastici.
La relazione riferisce anche dell’esistenza della
fonte della Salinella, di proprietà della mensa vescovile, la cui acqua aveva la
caratteristica di eliminare i porri delle mani;
sebbene la sorgente si trovasse in una proprietà della chiesa, se ne era
impossessato il feudatario del paese che contava 1.000 abitanti,
con un deficit di 370 unità rispetto a tre anni prima perché l’economia del
paese - secondo il prelato - “de die in diem deficit ex malo
regimine baronorum et ministrorum”. Il vescovo riferiva inoltre che il duca si
era appropriato del terreno della Salinella durante il presulato di monsignor
Alfonso Petrucci (1685 - 1688) e, durante il suo ufficio, senza il regio
assenso, aveva vietato il jus pascendi
nei terreni pubblici, per la qual cosa il bestiame sia della mensa vescovile che
dei cittadini era costretto a pascolare in terreni angusti e poco redditizi. In
più, il duca Fabio Caracciolo aveva costretto i cittadini, le loro mogli e i
loro figli a lavorare gratuitamente per lui. Pertanto, il presule pregava il
segretario della Sacra Congregazione di farsi carico presso il Nunzio apostolico
di Napoli affinché questi intervenisse presso la corte napoletana per risolvere
il problema.
In un foglio allegato alla relazione, il segretario della Sacra Congregazione
così annotava, in data 9 agosto 1695, al Segretario di Stato del Vaticano:
“Belcastro. Supplica il vescovo che sia ordinato al Nunzio d’assistere
validamente alle ragioni dei suoi diritti fraudati dal duca di detta città,
quale in fede vacante senza l’assinzo regio sono li cittadini a donare a sé
mogli e figli, tutte le forze publiche e comuni; com’anche il vescovo
predecessore una tenuta della Mensa che tutt’assieme faranno di prezzo 1050
scudi d’oro ed in tal modo là [leggi, ha tolto] il jus pascendi che vi
havivano tanto li laici quanto gli ecclesiastici in sommo loro pregiudizio non
solo del pascolo ma perché in esse foreste vi pascolavano senza la solita
negoziazione del terraggio. La Congregazione stima che la S. V. possa dare il
sudetto ordine al Nunzio per lettera della segreteria di Stato o della
Congregazione. Die 9 agosto 1695”.
Purtroppo non sappiamo come la cosa andò a finire.
Un altro contrasto fra il vescovo Giovan
Battista Capuani (1729 - 1752) e il feudatario del tempo, il barone Alfonso
Poerio, ci viene segnalato indirettamente da una lettera del Nunzio di Napoli al
Segretario di Stato del Vaticano, datata 4 settembre 1731: in essa si legge che
il barone spalleggiava due fratelli della famiglia Jozzolino, che secondo il
Nunzio, dovevano essere arrestati perché avevano minacciato il prelato con la
pistola durante la processione del Corpus Domini (vedi:
accadde nel …).
Anche il penultimo barone di Belcastro Vincenzo
Poerio, nipote di Alfonso, entrò in lite con l’ultimo vescovo di Belcastro, il
crotonese Vincenzo Greco (1792 - 1805) per questioni economiche. Il Poerio aveva
preso in fitto, nel 1796, alcuni terreni della mensa vescovile dei quali non
intendeva pagarne il canone di locazione, per cui il vescovo intentò una causa
giudiziaria contro il barone che fu costretto a saldare il debito, dietro il
pignoramento del raccolto del grano.
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