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di Raffaele Piccolo

I CONTRASTI TRA CURIA VESCOVILE E CURIA CIVILE

 

La storia feudale è abbastanza ricca di avvenimenti che hanno caratterizzato le  due maggiori forze di potere dell’epoca: la Chiesa e lo Stato, che per Belcastro erano rappresentate dalla curia vescovile e da quella civile e che, in sostanza, erano personificate dal vescovo e dal feudatario pro tempore.

Oltre gli interessi religiosi e sociali, quelli che caratterizzarono di più la mensa vescovile[1] e quella civile furono di natura economica.

Spesso accadeva che il feudatario prendesse in fitto i terreni della chiesa e, poi, non intendesse  - per ragioni particolari -  saldare il canone pattuito; ma poteva succedere anche il contrario: in una annata particolarmente feconda, ad esempio, la mensa vescovile spesso pretendeva più del pattuito. Ciò accadeva per la precarietà dei contratti di affitto che difficilmente ne stabilivano con precisione le clausole, ma lasciavano spazio ad interpretazioni personali e di comodo, anche perché quasi sempre erano semplicemente patti verbali.

Un altro contrasto tra i due poteri locali era sovente causato dal feudatario che, per la vita dispendiosa che conduceva[2], non riusciva a mantenere fede agli impegni presi e, quindi, le questioni che ne scaturivano, anziché essere smussate, generavano in liti che, a loro volta, sfociavano in soprusi a volte violenti. Quest’ultimi, spesso, erano favoriti dalle lunghe assenze dei vescovi dalla sede belcastrese, che veniva a trovarsi in uno stato di abbandono del quale ne approfittava il feudatario per impossessarsi di diritti non suoi. Perciò, i contrasti fra la curia vescovile e quella civile accadevano frequentemente, specie per un paese come Belcastro, la cui sede vescovile, per la sua precarietà economica ed ambientale, era considerata dai vescovi ivi assegnati, sede “transitoria”[3].

Il primo episodio documentato che ci è pervenuto riguarda il vescovo Leonardo Levato (1518 - 1533)[4], oriundo di Taverna, e il conte di Castiglione Cosentino, Alvise d'Aquino, discendente del ramo di Belcastro[5], che aveva preso in fitto il feudo da sua zia Costanza d’Avalos d'Aquino.

Il vescovo esercitò le sue funzioni “per plures annos episcopatu et illius fructibus violenter spoliato committitur officium conferendi ordines in Urbe”, come è riportato in una nota della Hierarchia catholica di Konrad Eubel[6].

Ciò significa che il conte Alvise si era appropriato di molti beni della mensa vescovile, cioè di terreni, entrando in lite con il vescovo Levato. La lite fra i due dovette essere molto accesa, dal momento che il prelato fu costretto a  soggiornare a lungo a Roma, presso l’ordine religioso dei domenicani, cui apparteneva.

Certamente, sia prima che dopo questo episodio, i contrasti fra vescovi e feudatari furono molto frequenti, anche se per la maggior parte sono rimasti sconosciuti.

Il  secondo episodio, a noi pervenuto, è quello fra il vescovo roglianese Gerolamo Ricciulli (1616 - 1626) e il barone Francesco I Sersale. Il prelato, che era “doctissimus juris consultus”  - sia per la sua cultura sia per la sua giovane età[7]- incominciò a rivendicare alcune usurpazioni terriere che i feudatari avevano compiuto fino allora per la lunga assenza dei vescovi precedenti (1609 - 1627).

Lo scontro più forte, però, tra la curia vescovile e quella civile si ebbe durante il presulato di monsignore Carlo Gargano (1672 - 1683) ed il duca Carlo I Caracciolo, o meglio ancora, con il suo fratellastro Domenico, fittavolo del ducato.

Il vescovo, infatti, così scriveva al Nunzio apostolico di Napoli in una sua lettera-esposto:

“Carlo Gargano, vescovo di Belcastro, venendo giornalmente in occasione di immunità ecclesiastiche travagliato da D[on] Domenico Caracciolo, fratello del Duca e affittatore di detta città, a segno che doppo l’impedirli la coltura dei Beni della Mensa con ordinare ai suoi vassalli che non si servono, non ha mancato macchinare alla vita dell’oratore, contro cui ha concepito odio implacabile per l’immunità e difesa della sua chiesa et ecclesiastici, dei quali si ha per forza presi i frutti dei loro beni in danaro tale che si sono ridotti a scorno del loro carattere andare mendicando. Supplica però umilmente l’E. V. di una lettera d’ordine di N. S. al Sig. Viceré di Napoli, a finchè protegga l’Oratore con far rimuovere detto dittatore da quella città, perché altrimenti saranno irreparabili le ruine”[8]. Come andò a finire non ci è dato sapere.

Anche il vescovo Giovanni Emblaviti (1687 - 1722) intraprese una lunga e aspra lotta con il duca Fabio Caracciolo, figlio di Carlo, per il recupero dei beni della mensa. Nella sua relazione vescovile del 16 maggio 1695[9] riportava che, in quell’anno, il reddito della chiesa era stato di appena ducati 460 anche per l’abuso dei “baronaria onera”[10], contro i quali il prelato incominciò una vera e propria battaglia per il recupero dei diritti ecclesiastici.

La relazione riferisce anche dell’esistenza della fonte della Salinella, di proprietà della mensa vescovile, la cui acqua aveva la caratteristica di eliminare i porri delle mani[11]; sebbene la sorgente si trovasse in una proprietà della chiesa, se ne era impossessato il feudatario del paese che contava 1.000 abitanti[12], con un deficit di 370 unità rispetto a tre anni prima perché l’economia del paese  - secondo il prelato -  “de die in diem deficit ex malo regimine baronorum et ministrorum”. Il vescovo riferiva inoltre che il duca si era appropriato del terreno della Salinella durante il presulato di monsignor Alfonso Petrucci (1685 - 1688) e, durante il suo ufficio, senza il regio assenso, aveva vietato il jus pascendi[13] nei terreni pubblici, per la qual cosa il bestiame sia della mensa vescovile che dei cittadini era costretto a pascolare in terreni angusti e poco redditizi. In più, il duca Fabio Caracciolo aveva costretto i cittadini, le loro mogli e i loro figli a lavorare gratuitamente per lui. Pertanto, il presule pregava il segretario della Sacra Congregazione di farsi carico presso il Nunzio apostolico di Napoli affinché questi intervenisse presso la corte napoletana per risolvere il problema[14]. In un foglio allegato alla relazione, il segretario della Sacra Congregazione così annotava, in data 9 agosto 1695, al Segretario di Stato del Vaticano: “Belcastro. Supplica il vescovo che sia ordinato al Nunzio d’assistere validamente alle ragioni dei suoi diritti fraudati dal duca di detta città, quale in fede vacante senza l’assinzo regio sono li cittadini a donare a sé mogli e figli, tutte le forze publiche e comuni; com’anche il vescovo predecessore una tenuta della Mensa che tutt’assieme faranno di prezzo 1050 scudi d’oro ed in tal modo là [leggi, ha tolto] il jus pascendi che vi havivano tanto li laici quanto gli ecclesiastici in sommo loro pregiudizio non solo del pascolo ma perché in esse foreste vi pascolavano senza la solita negoziazione del terraggio. La Congregazione stima che la S. V. possa dare il sudetto ordine al Nunzio per lettera della segreteria di Stato o della Congregazione. Die 9 agosto 1695”[15]. Purtroppo non sappiamo come la cosa andò a finire.

Un altro contrasto fra il vescovo Giovan Battista Capuani (1729 - 1752) e il feudatario del tempo, il barone Alfonso Poerio, ci viene segnalato indirettamente da una lettera del Nunzio di Napoli al Segretario di Stato del Vaticano, datata 4 settembre 1731: in essa si legge che il barone spalleggiava due fratelli della famiglia Jozzolino, che secondo il Nunzio, dovevano essere arrestati perché avevano minacciato il prelato con la pistola durante la processione del Corpus Domini (vedi: accadde nel …).

Anche il penultimo barone di Belcastro Vincenzo Poerio, nipote di Alfonso, entrò in lite con l’ultimo vescovo di Belcastro, il crotonese Vincenzo Greco (1792 - 1805) per questioni economiche. Il Poerio aveva preso in fitto, nel 1796, alcuni terreni della mensa vescovile dei quali non intendeva pagarne il canone di locazione, per cui il vescovo intentò una causa giudiziaria contro il barone che fu costretto a saldare il debito, dietro il pignoramento del raccolto del grano[16].

  


[1] L’organo che sovrintendeva agli interessi economici.

[2] Ad esempio, il barone Cesare Poerio, la cui posizione economica era tutt’altro che florida, nel 1854, fece un donativo al nipote Giovan Battista Englen di ben 3000 ducati “per l’affetto che nutre verso signor Don Giovanni Battista Englen suo nipote”.

[3] La “transitorietà” della sede vescovile di Belcastro la si deduce dal fatto che, dei 45 vescovi che hanno governato la diocesi, soltanto due erano già vescovi; mentre, per tutti gli altri, la diocesi belcastrese è stata la prima sede del loro presulato. Un’altra caratteristica di questa precarietà è fornita dalle molteplici vacanze vescovili, oltre che dagli altrettanti numerosi affidamenti della diocesi ai vicari vescovili.

[4] Il Levato, prima della nomina a vescovo, era stato il decano della cattedrale di Belcastro.

[5] Il suo capostipite fu Adenolfo II, figlio di Adenolfo I e nipote di S. Tommaso, fu un valente capitano di una compagnia di balestrieri (1283 – 1293) durante la guerra del Vespro. “Dominus” di Belcastro, nel 1288, lasciò la sua parte del feudo di Belcastro al fratello Tommaso I per ricevere, tra il 1290  e il 1292 dal duca di Calabria, Roberto d’Angiò, il feudo di Castiglione Cosentino  - ritornato alla curia regia per la morte del suo feudatario Guglielmo, rimasto senza prole -  oltre a 20 once d’oro annue dalle saline di Brahalla (Altomonte) ed altre 20 dalla gabella di Salerno.

[6] K. EUBEL, Hierarchia catholica Medii aevi sive summorum pontificum, S.R.E. cardinalium, ecclesiarum antistitum series: ex documentis tabularii praesertim Vaticani collecta, digesta, Patavi 1960, vol. III, p. 130, nota n. 3.

[7] Fu nominato vescovo all’età di 36 anni.

[8] ASV, Nunziatura di Napoli, anno 1681, fasc. 93, f. 258.

[9] ASV, SCC, Relationes ad Limina, Belcastro, a. 1695.

[10] Erano le imposte dovute alla curia ducale.

[11] ASV, SCC, Relationes ad Limina, Belcastro, a. 1692: “Territorium Bellicastri habet fontes perpetuas aquae salis quae cum sparguntur scintillas salis per lucidas videmus et multo acrius quam saligum condiunt. Hac aqua ablutis manibus delibescunt, sive deperiunt, porri qui nascuntur in manibus”.

[12] Andali ne contava 476 e Cuturella 200.

[13] Diritto di pascolo libero.

[14] ASV, SCC, Relationes ad Limina, Belcastro, a. 1695.

[15] Id.

[16] ASCz, Regia Udienza, Causa civile tra il Procuratore della mensa vescovile della città di Belcastro e don Vincenzo Poerio dei baroni della medesima città, 1795.

 

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