Vito
Teti (Manifesto per una nuova
Calabria)
Ho
vissuto la notizia del terribile
eccidio di Duisburg con un senso
di dolore e di rabbia, di
sofferenza e di impotenza. Come
tanti altri calabresi. Mi sono
trovato a pensare alle “povere
vittime”, ai “poveri calabresi”,
ai “poveri emigrati in
Germania”, ai “poveri abitanti”
di S. Luca. Al povero Corrado
Alvaro, uno dei più grandi
scrittori italiani del
Novecento, il cui nome,
dimenticato in altre
circostanze, viene scoperto,
citato a sproposito, in queste
dolorose occasioni. Ci siamo
sentito più poveri, privati
della nostra migliore
tradizione, delle nostre
speranze. La ricchezza,
procurata con la violenza,
genera povertà morale e
culturale, degrado sociale. Su
questo giornale avevo appena
pubblicato un articolo in cui,
descrivendo la situazione
dolorosa e sfarinata che vive la
Calabria, segnalavo la tendenza
autodistruttiva che si va
affermando da noi, una sorta di
maledizione a fare male e a
farci male, a divorarci, in
un’atmosfera cupa con le tenebre
che trionfano sulla luce,
Persefone su Demetra. Da
Duisburg giungeva la conferma
dolorosa, assurda, tragica di
una deriva morale, politica che
colpisce tutti.
S. Luca è un paese metafora
della regione, dei suoi
contrasti, delle sue luci e
delle sue ombre. E’ un luogo
dell’anima. Ho conosciuto, da
giovane, questo paese,
l’Aspromonte, Polsi attraverso
la lettura di Alvaro. Poi, a
partire dal 1977, ho visto e
rivisto, visitato questi luoghi
centinaia di volte. In occasione
della festa della Madonna, di
convegni, di iniziative
culturali. Ne ho scritto, ho
realizzato documentari, li ho
percorsi a piedi, camminando
religiosamente come insegnava
Alvaro. Sarei insincero se non
dicessi che questi luoghi
splendidi e incantevoli mi hanno
in alcune circostanze provocato
apprensione e disagio, non sarei
autentico se dimenticassi
problemi e immagini negative e
anche la difficoltà a
comprenderli, ma posso, senza
ombra di dubbio affermare, che i
costi maggiori di un’oppressione
voluta da pochi li pagano quegli
abitanti di S. Luca che, pure in
un clima di paura, non hanno
rinunciato alla loro tradizione
di accoglienza, e hanno fatto di
tutto per offrire un’altra
immagine del loro paese, a
partire anche dalla loro più
grande risorsa: Corrado Alvaro e
l’universo da lui raccontato, a
cominciare dalla Montagna e
dalle fiumare.
Dopo lo sgomento e lo
smarrimento iniziale, giunge il
tempo della riflessione e della
difficile e ineludibile domanda:
che fare? Quanto scriverò è
frutto di disagio e di voglia di
capire insieme agli altri; non
ho certezze e non ho ricette,
soltanto desiderio di
partecipare a un progetto comune
di ricostruzione. Se muore S.
Luca muore tutta la Calabria.
Sono queste le occasioni in cui
bisogna essere veri, sinceri,
magari scomodi.
***
Accanto a qualche articolo
attento e rispettoso e a
reportages intelligenti e non
scontati, a considerazioni
condivisibili, ho registrato
spesso, sui giornali, la
scoperta dell’acqua calda (gli
’ndranghetisti non sono poveri,
ma sono ricchissimi), la
ripetizione di antichi luoghi
comuni e l’invenzione di nuove
approssimazioni e
generalizzazioni. Il tentativo
di spiegare si è tradotto almeno
in due (con tante sfumature
intermedie) teorie o retoriche o
narrazioni mitiche. Una potremmo
chiamarla: “l’uso della
tradizione ad uso esterno”;
l’altra: “l’uso della modernità
ad uso interno”.
Secondo la prima narrazione, la
faida di S. Luca, pure legata ad
interessi economici illegali e
al controllo del territorio e
anche degli investimenti
miliardari in Europa e in altre
parti del mondo, in definitiva
non sarebbe altro che una
manifestazione di
quell’atavismo, di
quell’arcaicità che regnerebbero
in Calabria. Questa spiegazione
di tipo culturale fa riferimento
all’ideologia del sangue, al
valore delle vendetta e
dell’onore, alla particolare
struttura familiare degli
’ndranghetisti, alla loro
capacità di mettere in atto
comportamenti e di individuare
tempi simbolici, come quelli
della festa. Questa spiegazione
chiama in causa la potenza e la
forza di quella che
genericamente viene chiamata
“tradizione”. Non sarò certo io
(non soltanto in quanto
antropologo, ma anche in quanto
“narratore” e abitante di questi
luoghi) a negare l’incidenza
della tradizione, la potenza del
passato e della memoria, il
perpetuarsi di modelli e valori
tradizionali anche nel presente.
Non siamo lontani dal paradigma
lombrosiano del meridionale
naturalmente criminale, con una
religiosità barbarica, incline a
delinquere e compiere atti
cruenti.
L’individuazione di una sorta di
“cultura maledetta”, che rinnova
la teoria della “razza
maledetta” di Niceforo
(alimentata di recente al Nord,
come avevo scritto ne La razza
maledetta nel 1993), nella sua
schematica banalità, ha qualcosa
di consolatorio e di
rassicurante per gli osservatori
esterni. Non richiede molti
sforzi interpretativi.
La Calabria viene considerata
naturalmente e culturalmente
irrecuperabile e immodificabile,
con il corollario che tanto vale
trattarla come problema
criminale e tenerla lontana
dall’Europa dove non sarebbe
degna di entrare.
Paradossalmente la tradizione
non viene invocata dai locali,
ma dai forestieri ed è comoda
perché relega la regione fuori
dalla storia e dal mondo
“civile” e “moderno”. Questa
concezione non si accorge che il
mondo agropastorale è scomparso
(Alvaro, inopportunamente citato
anche senza essere stato letto,
lo aveva chiarito già alla fine
degli anni venti del Novecento),
la famiglia tradizionale si è
erosa, le comunità si sono
dilatate, disgregate, trasferite
altrove e il mondo esterno è
arrivato anche nelle più piccole
e anguste comunità.
Il lato perverso di questa
teoria è che genera (lo aveva
ricordato un secolo fa Napoleone
Colajanni) anche nei locali
sfiducia, pessimismo,
rassegnazione, lamentela;
postula l’impossibilità del
cambiamento e quindi l’inutilità
dell’agire e del fare. L’essere
(immutabile e astorico) prevale
sul fare e quindi nasconde la
via del mutamento. C’è ancora un
esito più perverso: quello dei
calabresi, che si sentono
assediati e incompresi,
abbandonati e denigrati, ed
elaborano una cultura della
lamentela, una difesa di ufficio
di tutti i loro comportamenti,
in altre parole una sorta di
razzismo alla rovescia, una
calabresità angusta ed enfatica,
per cui tutti i mali vengono
attribuiti agli altri, ai
forestieri, allo Stato. La
responsabilità non è mai
“nostra”, ma degli altri, di
qualcuno che ci perseguita, che
non ci capisce o non ci aiuta a
sufficienza.
In anni recenti anche ad opera
di élite e di studiosi locali la
tradizione (assunta in maniera
mummificata e granitica) è stata
oggetto di mitizzazioni e di
letture edulcorate e
neoromantiche. Qualcuno è
arrivato addirittura ad
evidenziare gli aspetti popolari
della ’ndrangheta e ad elogiarne
gli aspetti positivi o
oppositivi. Qualcuno ha
scherzato col fuoco, giocando
con le parole dalle sue comode
stanze e dai suoi salotti.
Qualcuno ha confuso ribellismo,
opposizione popolare allo
straniero, brigantaggio e
’ndrangheta. Non possiamo
permetterci questi equivoci. I
tedeschi sono oggi spaventati e
preoccupati della penetrazione
criminale nelle loro città e
nelle loro terre, ma la Germania
è la nazione dove da anni
vengono realizzate e vendute
centinaia di migliaia di CD con
canti e musiche “popolari” che
elogiano o esaltano i
sequestratori, i cavalieri
spagnoli difensori degli
oppressi, l’omertà, il valore
dell’onore e della vendetta. Si
piegano così (come scrivevo
tanti anni fa su “Diario” e come
ha scritto, di recente,
Francesca Viscone in un suo
libro) i valori di
un’imprecisata ed astorica
tradizione popolare (che
peraltro non è detto che vada
assunta sempre positivamente)
all’ideologia ’ndranghetista. Di
recente è stato realizzato anche
un filmato in cui vengono
esaltati presunti valori
antagonisti e oppositivi della
vecchia ’ndrangheta (quali?). Mi
è stato riferito che questo
prodotto è stato ufficialmente
presentato a Cosenza alla festa
provinciale di un partito della
sinistra radicale. Spero che si
tratti di un equivoco, di un
malinteso, di una notizia non
veritiera.
***
Siamo giunti alla teoria,
complementare e, in parte, di
segno opposto a quella appena
delineata della narrazione
moderna e modernista della
“faida”. Certi comportamenti non
avrebbero tanto a che fare con i
valori e con la tradizione, con
i sentimenti (sia pure negativi)
ma sarebbero, come sostengono in
molti, l’esito di una capacità
della ’ndrangheta di
modernizzarsi, di inserirsi
all’interno delle istituzioni e
delle banche, di creare economia
anche “legale”. Sulla grande
holding criminale il giudice
Nicola Gratteri e Antonio Nicaso
hanno fornito dati e documenti
che confermano questa ipotesi.
Il problema, però, non è negare
la capacità affaristica e la
penetrazione globale delle
mafie, ma segnalare, come questa
realtà, che non può essere
confutata, viene assunta dai
locali (soprattutto dai
politici) come una sorta di
assoluzione e viene esibita con
un atteggiamento quasi
consolatorio. L’evidenza che la
’ndrangheta non riguarda
soltanto la Calabria, è diffusa
dappertutto, ha ramificazioni in
tutto il mondo, controlla
economie legali ed illegali, si
afferma con la violenza dovunque
ha suoi interessi, si traduce,
non tanto in un’assunzione di
responsabilità, ma nella
conclusione che il problema
riguarda tutti (la Calabria,
l’Italia, l’Europa). Mal comune
mezzo gaudio, la ’ndrangheta è
dappertutto, quindi non è un
problema nostro. E’ ovvio che la
’ndrangheta può essere
contrastata agendo e
intervenendo soltanto a S. Luca
e nei tanti centri “governati”
da potenti famiglie criminali.
Bisogna andare nei palazzi,
nelle banche, nelle grandi
città. Questo dato non dovrebbe
portare a negare l’origine e la
peculiarità della ’ndrangheta.
Piaccia o no, essa, come tanti
prodotti alimentari, è un
“prodotto locale”. Se mai,
dovremmo chiederci perché mai è
l’unico prodotto capace ad
espandersi globalmente, mentre
le risorse positive della
regione vengono sciupate.
Probabilmente è proprio
l’espansione criminale,
unitamente alla mancanza di un
élite economica pulita e di una
politica con una morale, a fare
sì che le vere risorse calabresi
rimangano inutilizzate. Anche
con disagio di quei luoghi dove
si crea l’illusione di un
arricchimento facile, che poi
porta lutto, dolore, sofferenza.
La ’ndrangheta si è estesa in
tutto il mondo, ma resta un
prodotto storico della nostra
terra, è un nostro problema, la
nostra palla al piede, la nostra
sventura che gli altri non sono
disponibile a condividere con
noi. Spetta a noi liberarcene,
certo non da soli, certo non
senza la presenza dello Stato.
Discutere su quanti quintali di
tradizione e quanti quintali di
modernizzazione violenta
concorrano a formare il mix
criminale è operazione utile per
capire, ma sterile se ci si
ferma a questo livello di
discussione. Inconcludente se
ostacola azioni concrete
(legali, repressive, culturali,
religiose) di contrasto che
vanno elaborati e inventati qui
ed ora. Senza indugiare.
L’identità è quella che si
costruisce oggi e i materiali
sono quelli che noi sappiamo
scegliere e utilizzare. Non
tutti quelli che arrivano dal
passato sono validi e utili e
nemmeno quelli della
globalizzazione debbono essere
acquisiti acriticamente.
***
Se le analisi sono difficili,
problematiche, complesse, ancora
più ardue sono le proposte, più
difficoltose le vie di uscita da
questa situazione che rischia di
fare restare ai margini per
decenni la nostra regione. Si è
letto di tutto sui giornali in
questi giorni. Si è invocata la
presenza dello Stato, la
modifica del codice di procedura
penale, una legislazione
straordinaria, un’azione di
intelligence, di prevenzione e
di polizia, un rafforzamento,
finalmente, della magistratura
in prima linea. Ben vengano
questi provvedimenti. Non si
aspetta altro. E tuttavia penso
che un’azione incentrata
sull’opera di una legittima (e
sempre rinviata) prevenzione e
repressione non sia sufficiente,
non basti. Personalità e
commentatori più avvertiti hanno
colto che la battaglia si gioca
prevalentemente anche livello
culturale, sul piano dei
comportamenti etici, nella
società e nelle comunità
calabresi.
Monsignor Bregantini, con
coraggio e, mi pare (spero di
sbagliarmi e di poter essere
smentito), anche in profonda
solitudine, ha individuato nei
“sentimenti”, nelle “emozioni”
di cui, nel bene e nel male,
sono depositarie le donne, un
punto su cui fare leva per
interrompere la spirale
dell’odio, della vendetta e di
una cultura della morte.
L’invito all’amore e al perdono
è quanto di più bello possa fare
un pastore che vive con
sofferenza la sua missione (ed è
bello ascoltare che qualche
familiare delle vittime non
resta indifferente a questo
nobile invito); tuttavia non
penso che le donne (spesso
coinvolte in prima persona nella
gestione di affari di famiglia)
possono da sole spezzare una
cultura e una mentalità,
prevalentemente maschili, a cui
sono state “educate” fin da
bambine. L’utopia e la speranza
del vescovo hanno però il merito
di segnalare che il problema è
di ordine culturale, e che
bisogna smuovere le coscienze,
mutare le mentalità, abbandonare
“tradizioni” inutili e dannose,
inventare nuove pratiche di
stare assieme.
Per queste considerazioni trovo
abbastanza estemporanee le
proposte di qualche
intellettuale, anche con
importanti ruoli istituzionali,
che invece di puntare in maniera
più convinta e magari innovativa
sulla cultura chiede un
intervento di ministri e di
uomini politici a S. Luca e
l’invito ad interventi
strutturali, urbanistici, di
risanamento. Non credo
all’utilità delle passarelle
fine a se stesse, alle
iniziative antimafia di una
mezza giornata (caldeggiate,
come si ascolta in qualche
intercettazione, dagli stessi
’ndranghetisti) e credo che il
risanamento urbanistico di S.
Luca debba rientrare in un
generale progetto di
ricostruzione delle zone
interne, della montagna e del
paesaggio deturpato e incompiuto
e non rientrare in una logica di
intervento eccezionale, che
paradossalmente potrebbe finire
col fare gli interessi delle
stesse ricchissime famiglie
locali.
La Fondazione Corrado Alvaro ha
compiuto tante opere di qualità
e portato avanti iniziative
meritorie, molti suoi membri di
S. Luca hanno operato con
passione, entusiasmo,
abnegazione, anche per costruire
un’altra immagine della loro
comunità. Bisogna continuare
sulla via della cultura, se mai
si tratta di aggiustare il tiro,
magari percorrendo, con maggiore
fantasia, altre strade.
Forse è il caso, invece di
invocare (in maniera
comprensibile) interventi
dall’alto, di domandarsi se non
sia bene ripartire dal basso;
forse invece di assegnare premi
a scrittori e studiosi già noti
(la Calabria ha anche
un’abbondanza di premi inutili e
di manifestazioni ripetitive e,
spesso, di bassa qualità)
sarebbe meglio incoraggiare le
nuove intellettualità del luogo.
In Calabria non bisogna
abbandonare la via della
cultura, ma intraprenderla con
convinzione e in maniera
innovativa, se mai rinunciando a
iniziative effimere, che nulla
modificano, e creare strutture
culturali stabili di intervento
e di mutamento, che modifichino,
migliorandola, la qualità della
vita delle persone. Le pagine di
Alvaro sull’incompiutezza, sulla
discesa delle popolazioni lungo
le coste, sul complesso rapporto
tradizione-modernità, sulla
polarità tra mondo dei padri e
mondo moderno vadano lette e
meditate in tutte le scuole. E
così tante pagine di Strati,
Seminara, Lacava, Montalto,
Asprea e altri scrittori.
Non basta, tuttavia forse
sarebbe opportuno fare leggere
Gomorra di Saviano o, anche,
come ricorda lo stesso
scrittore, gli studiosi
meridionalisti e anche tanti
nuovi scrittori calabresi e
meridionali e tanta letteratura
europea contemporanea. Dovremmo
attenuare l’esasperata tendenza
all’autosservazione e
all’autocompiacimento e aprirci
allo sguardo degli altri, agli
scrittori, ai musicisti, agli
artisti europei e del mondo. Non
rinunciare certo alla memoria e
alla propria storia, ma non
mummificarle, contaminarle,
rinnovarle, farle dialogare con
culture e produzioni di altri
luoghi e di altri contesti. Si
premino o si offrano soggiorni a
grandi scrittori e saggisti che
mostrino desiderio di passare
parte del loro tempo nelle
nostre comunità per poi
raccontarcele, descrivercele,
farci capire qualcosa che,
forse, noi non possiamo o non
vogliamo vedere. Liberiamoci
dalla paura dello sguardo di chi
viene da fuori, dalla sindrome
degli assediati.
La Regione dovrebbe fare
un’opera capillare, incisiva,
continuata nelle scuole. Fulvio
Librandi ha più volte suggerito,
anche su questo giornale, l’idea
di un “Museo della ’ndrangheta”,
un centro permanente espositivo
e di studi, che racconti la
storia devastante e luttuosa di
questa organizzazione, e che
promuova iniziative ed elabori
conoscenza. Chiedo al Presidente
della Giunta Regionale e
all’Assessore alla Pubblica
Istruzione di prendere in seria
considerazione questa proposta,
di valutarla, di ragionarci.
Le stesse Università dovrebbero
sentirsi anche università dei
paesi e delle comunità
calabresi; dovrebbero mirare a
una migliore conoscenza del
territorio, piantare germi di
mutamento. Propongo al Rettore
della mia Università, Giovanni
Latorre, e al Preside della
Facoltà di Lettere e Filosofia,
Raffaele Perrelli, di farsi
promotori con altri presidi e
con altre facoltà e università
di un “Centro
interdipartimentale sulla
ndrangheta e sulla legalità”,
con borse di studio e fondi per
dottorati di ricerca su queste
tematiche. Vanno incoraggiate
una seria e mirata sociologia e
antropologia delle nuove
relazioni, dei nuovi modelli
(non solo economiche)
’ndranghetisti e dell’affermarsi
della criminalità fuori dal
contesto di origine. Si pensi
anche a una laurea specialistica
(ne esistono tante inutili)
sulla storia e sull’antropologia
della ’ndrangheta; si chiamino
ad insegnare esperti,
magistrati, sociologi,
antropologi, economisti,
urbanisti, letterati, psicologi,
pedagoghi, storici, studiosi del
diritto e si formino giovani
docenti da inviare a insegnare
nelle scuole elementari e
superiori una materia sulla
legalità da rendere
obbligatoria. Si tagliano nelle
scuole le spese inutili per i
soliti corsi e corsetti di
formazione (sprechi inutili) e
si punti a dei corsi di una
nuova “educazione civica” che
costituiscano materie di esami e
anche credito formativo per la
maturità e l’università.
***
Il problema, però, è culturale,
in un senso più radicale e
profondo. E’ culturale in
accezione antropologica. Il
degrado e la violenza non
riguardano solo le ndranghete,
ma sono inscritte ormai nel
tessuto sociale e politico della
regione. Carmine Donzelli ha
ricordato (in una trasmissione
radiofonica) che non dobbiamo
immaginare che esista una
separazione netta tra chi compie
atti criminali e il resto della
società. Finché, dice Donzelli,
“il nucleo del modello di
relazione parentale-clientelare
rimane il centro e il cuore
della politica calabrese, così
come praticata da tutti i grandi
partiti, ci sarà una
responsabilità enorme”.
Condivido pienamente. Da tempo,
anche su questo giornale, in
maniera ripetitiva e monotona,
vado sostenendo che i
comportamenti familistici e
illegali di tanti strati della
società calabrese (non solo
della ’ndrangheta) trovano
un’indiretta legittimazione, una
sponda inattesa, nelle pratiche
familistiche, amorali, immorali
della politica.
La faida di S. Luca ha esiti
drammatici e provoca morti e
lutti, ma è sotto gli occhi di
tutti che le “faide” politiche,
di cui abbiamo quotidiana
notizia sui giornali, alla lunga
provocano danni e guasti
ugualmente devastanti. Litigi,
vendette, ostracismo da parte
dei politici nei confronti di
quanti non dicono signorsì o non
sono funzionali ai loro
progetti, dei non parenti e dei
non schierati, non sono un buon
modello da additare a quei
ragazzi che poi dovremmo educare
alla legalità, mostrando loro la
via senza uscita della scelta
criminale.
Anche importanti uomini di
governo hanno giustamente
invocato un’inversione di
tendenza nelle indagini e nella
repressione, nella lotta alla
criminalità e un salto di
qualità, una sorta di scatto di
orgoglio. Il problema da
affrontare, però, non è solo di
ordine pubblico o quello di
colpire i ricchi che fingono di
essere poveri. Il problema è
quello di aiutare l’altra S.
Luca, di riscoprire di nuovo un
Meridione (da non ridurre a
questione criminale e di ordine
pubblico). L’intervento va
condotto, contemporaneamente, e
a più livelli. L’altro problema
è che questo scatto di orgoglio
e questa inversione di tendenza
vengono sempre richiesti agli
altri e quando ci si vede con
l’acqua alla gola. Dall’alto
della loro posizione politica e
di governo, alcune figure
prestigiose, su cui abbiamo
riposto anche molte speranze,
non possono non vedere e non
dire all’area politica di
riferimento che le cose debbono
cambiare, non possono non
pretendere l’abbandono di
logiche e di pratiche che
mortificano la Calabria e la
mettono sempre sotto
osservazione, facendola
diventare un’ossessione per i
politici nazionali, che non si
rendono conto del dramma che
vive la regione, che magari
sanno tutte le nefandezze dei
loro referenti locali e non
riescono a smuoverli per qualche
gioco di potere. C’è da
chiedersi se tante mediazioni in
basso, tante lotte intestine,
tanto tempo sprecato per
aggiustare e accontentare, di
fatto non finiscono con il
favorire la ’ndrangheta, con il
renderla soggetto
intraprendente, lungimirante,
incontrollata o anche
protagonista.
L’emergenza in Calabria è
quotidiana. Si facciano grandi
scelte, coraggiose, mirate, di
tipo generale.
Ognuno deve partire dalle
proprie responsabilità, dalla
“parrocchia” o dal partito o
dalla casta di appartenenza
senza pretendere di salvare il
“noi”, di chiamarsi fuori. E’
legittimo, certo, attendersi uno
scatto di orgoglio, un sussulto
di responsabilità, un atto di
coraggio dagli intellettuali,
dalla Chiesa, dai giovani, dagli
imprenditori, dagli operatori
culturali. Ma è dovere di chi ha
scelto di servire lo Stato e di
chi ha deciso di governare e di
gestire la cosa pubblica battere
un colpo per primo. La politica
(se esiste ancora nella sua
versione nobile) faccia vedere
che è in grado di governare
questa regione, che è
interessata quotidianamente alla
sua immagine e a al suo destino;
mostri che non vuole più
soffocare come un tappo
asfissiante tante energie, che
restano deluse e si allontanano,
liberi tante potenzialità, offra
un’idea generale della regione,
si dia davvero un codice etico,
allontani indagati e condannati,
non presenti furbescamente come
nuove facce vecchissimi e anche
stimabili protagonisti, cerchi
consensi al di fuori dai soliti
noti, investi su persone libere,
competenti e non
accondiscendenti, non abbia
paura di perdere posizioni di
potere e di rendita, sappia
progettare, con il concorso
della tante intelligenze, i
fondi strutturali, pensando al
bene comune e a una regione
europea. Dia speranza. Parli il
linguaggio della verità e non
della furbizia. La Calabria non
può più aspettare.
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