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di Raffaele Piccolo

 

 

COME SI PRODUCEVA LA SETA A BELCASTRO

 

La seta, come si sa, è un prodotto di importazione orientale e la sua lavorazione risale all’epoca dell’imperatore cinese Sehn Nung che ne fece iniziare la lavorazione nel 2800 a. C.[1].

Sull’origine dell’introduzione della produzione della seta in Calabria vi sono diverse tesi; la più attendibile, comunque, rimane quella dell’importazione araba risalente, quindi, ai secc. IX-X.

Nelle nostre contrade la produzione della seta ebbe il suo maggiore sviluppo sotto i normanni e durò incontrastatamente fino agli albori della seconda metà del 1500, dopo i quali iniziò la sua fase discendente.

L’avvento della dinastia normanna (1065-1191), specie sotto Ruggero II (1130-1154), diede un forte impulso alla bachicoltura (o trattura della seta) e con Federico II di Svevia (1220-1250) divenne una vera e propria attività economica, con la quale l’imperatore intese dare impulso all’economia calabrese.

Da uno studio del brebion[2] della cattedrale di Reggio, si rileva che nella prima metà del secolo XI, quindi durante il periodo di Roberto il Guiscardo (1057-1085), la coltivazione dei gelsi (ciùzi) in Calabria era senza dubbio un’attività redditizia; infatti, è stato stimato, per esempio, che il numero dei gelsi coltivati nei terreni dell’arcivescovado di Reggio sia stato di ben 24.000 alberi[3].

Il baco da seta, verme della lunghezza di circa 5 cm, per produrre la sua bava filamentosa (filo di seta) si doveva cibare con le foglie del gelso.

Il metodo di produzione della seta grezza si è tramandato nelle nostre contrade fino agli anni 1920-1930, anche se ormai non costituiva più, da secoli, la redditizia fonte economica del periodo medievale-rinascimetale.

Il baco, come si è detto, era un piccolo verme di colore biancastro, dialettalmente detto siricu, dal greco-bizantino serikòs, e siricaru il lavoratore della seta, da serikàrio, mercante di seta.

Il baco, nel suo periodo di fecondità, espelleva le sue uova che venivano, poi, deposte al caldo di un panno di lana che produceva una temperatura superiore ai 15 gradi. Un altro sistema era quello di deporre le minuscole uova (in un'oncia, 27 grammi, ve ne erano circa 60mila) sotto il materasso del letto, oppure molte donne le portavano al seno, contenute in un panno e ne facilitavano la schiusa con il calore corporeo. La schiusa delle uova avveniva dopo 14 giorni. Le larve, di colore grigio nerastro, venivano poste su graticci di canne (cannizzi), i cui piani erano coperti di carta, ed alimentati con foglie tenere di gelso bianco finemente tagliuzzate. Nei primi giorni, il lavoro si limitava alla raccolta ed alla frantumazione di una congrua quantità di foglie di gelso ben asciutte, fresche e pulite e, almeno ogni 48 ore, dovevano inoltre essere sostituiti i fogli di carta che raccoglievano gli escrementi. Più i bachi crescevano, più aumentava il loro appetito. Nel corso della loro crescita subivano 4 mutazioni della pelle, mutandone anche il colore fino ad arrivare al bianco o giallo: la prima muta avveniva al 5° giorno dalla schiusa, la seconda al 10° giorno, la terza al 16°, la quarta muta al 23° e, al 33° giorno di vita, i bachi incominciavano a secernere la bava (vambaceddra) emessa da un organo detto "filera", posto sotto la bocca, iniziando così la costruzione bozzolo vero e proprio di colore bianco (cucùddru). Dopo 15 giorni, il baco, cresciuto della lunghezza di un dito, emetteva una secrezione rossiccia, scioglieva poi la sostanza gommosa agglutinante che univa i fili, li divaricava senza romperli e usciva all'aperto con l'aspetto di una tozza farfalla bianca incapace di volare e di nutrirsi perché dotata di un apparato boccale rudimentale privo di organo succhiatore. Nei restanti 5-6 giorni, seguivano l'accoppiamento, la deposizione di circa 500 uova, quindi la morte che concludeva il ciclo dell'animale. Per l'utilizzazione della seta, però, era necessario intervenire prima dell'uscita della farfalla dal bozzolo, poichè la secrezione rossastra emessa dal baco per aprirsi il varco avrebbe irrimediabilmente macchiato la seta facendole perdere alcune sue peculiari caratteristiche come il candore e la lucentezza e rendendo, inoltre, impossibile il lavoro di filatura; perciò, prima dell'emissione della sostanza rossastra, la crisalide veniva sfilata (scucuddràta) ed i bozzoli venivano ammassati in un recipiente (quadàra) con acqua bollente, in modo che le varie “matasse” si amalgamassero in un’unica poltiglia. Poi, con un’asta di legno, alla cui estremità vi erano due lunghi chiodi che servivano a filare la poltiglia, si estraevano tre fili di seta che si “ammatassavano” da un chiodo all’altro, fino a comporre la matassa vera e propria della lunghezza di circa un metro. Le matasse di seta grezza venivano immesse sul mercato di Catanzaro per poi essere ancora raffinate e vendute come seta pura nei mercati di tutta Europa.

La seta siciliana e calabrese era molto ricercata non perché le altre regioni italiane non producevano tale prodotto, ma perché era di qualità più fine.

Ciò era dovuto al tipo di gelso coltivato.

Il gelso italiano era quello nero (il morus nigra) che non aveva le stesse qualità di quello bianco (il morus alba), presente in Sicilia e Calabria e, quindi, la seta prodotta dal baco di gelso bianco  - che era la più ricercata -  per alcuni secoli fu una prerogativa di queste due sole regioni che determinarono un vero e proprio monopolio, tanto che  - secondo una tradizione -  i setaioli catanzaresi furono chiamati alla corte di Francia per decorare con i loro arazzi i palazzi della reggia.

Ma con l’affinamento della tecnica vivaistica, specialmente quella toscana, si riuscì a fare attecchire il gelso bianco anche in altre regioni, come appunto la Toscana e la zona del lago di Garda,  e quindi la Sicilia e la Calabria non ebbero più il predominio di tale tipo di coltivazione, per cui la richiesta di seta grezza calabrese incominciò lentamente a diminuire perchè per i mercanti liguri, toscani, lombardi e veneti  - che fino allora si erano forniti nei mercati siciliani e calabresi – era più economico acquistare la seta nelle loro regioni e rivenderla nei mercati europei.

La produzione della seta, però, nelle nostre contrade continuò ad essere praticata, anche se in quantità molto minore, e veniva venduta nei nostri mercati per fornire i corredi delle spose.

A Belcastro, la cui coltivazione di gelsi conobbe un certo impulso durante il governo di Ferrante de Guevara (1470-1487), incominciò a decadere intorno al 1550 e gli alberi, con il tempo furono completamente spiantati, per fare posto a nuove coltivazioni.

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[1] G. TESCIONE, San Leucio e l’arte della seta nel Mezzogiorno d’Italia, Napoli 1961, p. 3.

[1] Il brebion era una specie di platea dove venivano annotate tutte le entrate ed uscite della chiesa reggina.

[1] Cfr. A. GUILLOU, La soie du katépanat d’Italie, in T. & mbyz, 6 (1976), p. 73 e ss.

11 LUGLIO 2003

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