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di Raffaele Piccolo

IL CONVENTO DOMENICANO DI S. DOMENICO

 

Lo scrittore cropanese Giovanni Fiore, trattando di Belcastro, scrive che il convento di San Domenico fu fondato nell’anno 1393, senza però citare documenti a riguardo. Esso sorgeva “fuori le mura” a circa due miglia dal paese, cioè nell’attuale località Duminicu, che prese il nome appunto dal convento stesso.

La data di fondazione, però, contrasta con quanto scritto in una relazione dei frati domenicani belcastresi, risalente alla metà del Seicento[1] i quali, rifacendosi a documenti esistenti nel convento, riportano che l’anno di fondazione avvenne nel 1451. Quest’ultima notizia però non è ben documentata nella relazione, per cui non possiamo dire quale sia stato l’anno vero e proprio della fondazione.

Successivamente fu trasferito sotto il rione di Fralemura, precisamente dove oggi sorgono le abitazioni civili di Fernando Lodari e Saverio Ciaccio, località che fino a qualche anno fa veniva indicata anch’essa con il nome di Duminicu.

Secondo la narrazione locale, il primitivo convento, sebbene poco distante dal paese, fu trasferito vicino le mura perché alcuni briganti vi si erano introdotti depredando i frati ed uccidendone il priore. I monaci, quindi, non sentendosi più al sicuro, decisero di abbandonare l’edificio religioso e costruirne uno nuovo sotto le mura di Belcastro, dove, ovviamente si sentivano più protetti.

Anche la data della seconda fondazione è controversa. Il Fiore la riporta all’anno 1480, mentre un’altra relazione secentesca dei frati domenicani di Belcastro afferma che la presa di possesso dell’edificio religioso avvenne nel 1491. Questa seconda relazione, però, è ben documentata, per cui dobbiamo prendere per buona la data della relazione che così riporta a riguardo: "L’anno 1491 fu trasferito d[ett]o con[ven]to per la distansa et commodità delli cittadini; et fu impetrato breve Apostolico di Papa Innocentio ottavo come appare sotto la d[at]a delli 22 di luglio del anno 1491 sigillato col suggello di piombo, et cordella di canape; facendo espressa mentione della bolla di Bonifatio ottavo, che non ostante detta bolla si possa trasferire il d[ett]o monasterio, et ridursi vicino la città in distansa di tre canne sotto il titulo di Santo Dom[eni]co, con il consenso della città, et mediante instrumento li fu concesso questo luoco".

Il convento, prima dell’abbattimento completo dei ruderi, si presentava abbastanza complesso e sorgeva su due livelli: in quello più alto vi erano due dormitori con 14 stanze, il refettorio,  l’alloggio del priore e le stanze dei servizi; ai piani bassi, vi erano le “officine”, i “magazeni e la stalla. Il convento era chiuso da mura intorno alle quali vi era l’orto. La chiesa, addossata al convento, era sotto il titolo di s. Domenico ed era lunga settanta palmi e alta quaranta.

Il convento, come scriveva il vescovo Francesco de Napoli (1639-1652) in sua relazione, svolgeva una meritoria attività culturale a favore dei frati e dei cittadini in quanto vi era annesso anche uno “studium philosophiae in fratruum et secularium commoditatem”[2].

Le prime relazioni dei vescovi belcastresi, però, riportano che il convento (come pure gli altri due esistenti, quello di San Francesco dell’ordine dei conventuali e quello della SS. Trinità dei francescani terziari) ospitava generalmente pochi frati, sebbene le rendite superassero abbondantemente i 500 ducati.

Il convento possedeva, infatti, numerosi terreni di varia natura e di diverso uso, che venivano dati in fitto; tra i più redditizi erano quelli adatti alla semina, che di solito erano affittati tre anni a semina e tre a pascolo. Questi erano situati in località “Crima”, “L’acqua della Fico”, “Il Cavalcatore”, “Furca”, “La Cona”, “Drialo” e “Juanni Marra”. Vi erano poi quelli adatti solo al pascolo, che erano in località detta “La Cubica” o “Chiubica”. A ricordo di dove anticamente sorgeva il primo convento, i domenicani conservavano una vigna ed un territorio boschivo. Vi era poi un altro terreno con alberi fruttiferi in località detta “La Torre di San Domenico”, e una vigna con alberi da frutto a “Campia”. A questi terreni erano da aggiungere un castagneto ed un oliveto.

Inoltre, in passato altri numerosi piccoli fondi erano stati concessi in enfiteusi, previo pagamento di un censo perpetuo annuo: dai censuari, al convento provenivano ogni anno 40 tomoli di grano e 168 ducati. Altri 45 ducati versava l’università di Belcastro alla quale i frati avevano ceduto la mastrodattia. Completavano le entrate del convento i proventi del mulino, le donazioni per i “funeralia” e le elemosine in grano, denaro, olio, cera  ed altro.

I domenicani di Belcastro stimavano l’entrata annua, calcolata sugli ultimi sei anni, in circa 357 scudi romani e l’uscita in 337 scudi. Anche se le entrate erano sottostimate, in quanto da altre fonti si sa che erano di solito abbondantemente superiori ai cinquecento ducati annui e, all’opposto, le uscite erano state gonfiate, il convento risultò attivo.

Tra le uscite primeggiavano le spese per il vitto e per il vestiario dei sei religiosi  - che costituivano la “famiglia” domenicana belcastrese -  e da sole rappresentavano i tre quarti del totale, seguivano quelle per il mantenimento del somaro, per il serviente, per il consueto ed ordinario mantenimento della chiesa e del convento, per le medicine, per il pagamento di alcuni censi passivi, per le contribuzioni all’ordine, ecc.

Con l’emanazione della bolla di Innocenzo X del 15 ottobre 1652, che prevedeva la chiusura di tutti i conventi con meno di 6 membri, il convento di s. Domenico riuscì a stento a non patire la sua chiusura. Infatti, sin dal 1650 nel convento vi erano tre frati: il priore Domenico Zito, il sacerdote Giovan Battista di Soriano ed il lettore Giacinto di Zagarise; due fratelli laici professi: Domenico di Soriano e Pietro di Mesoraca ed un inserviente laico.

Ma le mutate condizioni economiche del paese verificatesi in quel periodo fecero sì che alcuni vescovi, traendo spunto dalla bolla papale, chiedessero la chiusura del convento, come era già successo con gli altri due, chiusi per lo scarso numero dei frati: il convento della SS. Trinità era abitato generalmente da due o tre frati e quello dei terziari di s. Francesco da due. La chiusura del convento superstite veniva reclamata perché essa trasferiva automaticamente le proprietà dei beni conventuali alla mensa vescovile.

Si aprì così un lungo periodo di disputa fra la mensa vescovile ed il convento di s. Domenico che si protrarrà per oltre un secolo.

Il primo vescovo a chiedere al papa la chiusura del convento fu Giovanni Emblaviti (1688-1723) il quale, riferiva che i monaci non osservavano la regola. Inoltre il convento  - sempre secondo il vescovo -  non era consono alle prescrizioni previste dalla bolla papale, in quanto di solito non vi abitavano i sei frati previsti, ma solo due monaci sacerdoti e tre conversi, ossia oblati. Facendo leva su queste accuse il vescovo chiedeva l’abolizione del convento in modo da poterne incamerare ed amministrare le rendite, con il pretesto di utilizzare i locali del convento a seminario, poiché il terremoto del 1645 aveva distrutto quello già esistente[3]. La lite tra il vescovo Emblaviti ed i domenicani si prolungò. Il presule proseguì nel suo tentativo, denigrando di continuo il convento ed i frati che vi abitavano; descrivendo il luogo privo di una regolare osservanza e la vita dei frati non rispondente ai principi religiosi, pietra di scandalo per i cittadini e continua occasione di offesa per il vescovo. L’Emblaviti si premurò di informare di ciò anche il provinciale dell’ordine, invitandolo ad intervenire per riportare i domenicani di Belcastro sulla retta via[4]. La conflittualità tra il vescovo ed i domenicani si prolungò durante tutto il lungo periodo in cui l’Emblaviti rimase sulla cattedra vescovile di Belcastro, trovando più volte occasione di accendersi pubblicamente. All’inizio del Settecento il vescovo interveniva contro i frati perché si erano permessi di erigere senza il suo consenso una confraternita laica sotto il “Nome di Gesù”, che si era aggiunta a quella già esistente del “Rosario”. Le due confraternite ben presto vennero a lite dentro la chiesa, suscitando tra i cittadini occasione di grande scandalo. Prendendo spunto da tale avvenimento l’Emblaviti minacciò i frati a non istituire nuove confraternite senza il suo consenso e proibì ai laici di parteciparvi. Poiché i domenicani opposero il fatto di godere per licenza papale di tale diritto, il vescovo richiese un parere alla Sacra Congregazione[5]. Anche se i frati si opposero tenacemente, l’Emblaviti proseguì nel tentativo di porre il convento sotto la sua giurisdizione e più volte, nonostante le proteste, lo sottopose a visita[6]. Ma le rendite del convento, già da qualche anno, andavano sempre diminuendo, ciò sia per i cattivi raccolti sia soprattutto per la cattiva amministrazione dei frati. E’ di questi anni un intervento del papa Clemente XI il quale, l’1 maggio 1719, si rivolgeva ai vescovi di Belcastro, Isola e Catanzaro o ai loro vicari generali affinché intervenissero a favore del priore e del convento domenicano per recuperare e far restituire i beni sottratti[7]. Quindi, se da una parte i frati tentavano di recuperare i beni loro sottratti illecitamente dal feudatario e dai coloni del luogo dall’altra dovevano fronteggiare i tentativi vescovili. Infatti, anche il successore dell’Emblaviti, Michelangelo Gentile (1723-1729), rivolgendosi alla Sacra Congregazione, affermava che “poiché manca il numero di sei religiosi come previsto dal decreto «Ut in parvis» di Innocenzo X, non vi è dubbio che essi debbano soggiacere alla correzione e alla visita del vescovo, come in effetti il mio predecessore ha fatto. Anch’io in conformità dello stesso decreto curerò visitarlo, in quanto al presente manca una regolare osservanza ed ha bisogno di essere riformato dal profondo. Comunque chiedo un Vostro responso”[8]. I frati domenicani, stretti dalla soggezione vescovile, cercarono di opporsi aumentando i componenti della "familia" ma il vescovo ribadiva anche che nel convento non vigeva una regolare osservanza e che anche se vi era un numero sufficiente, cioè quattro sacerdoti e due laici, essi non risultavano conformi al decreto «Ut in parvis», non essendo di provata vita religiosa e di età matura. Perciò il convento rimaneva soggetto alla sua giurisdizione[9]. L’ostilità vescovile riprese al tempo del vescovo Tommaso Fabiani (1755-1778) che in una sua relazione così scriveva: “Nella città di Belcastro c’è il solo convento dell’ordine dei predicatori … Esso ha una rendita annua eccedente i 400 ducati, ma nonostante ciò a causa della cattiva amministrazione i religiosi vivono parcamente. Vi abitano due o al massimo tre frati e due laici, o conversi, che d’estate a causa dell’aria perniciosa, si trasferiscono altrove, lasciando solo un laico a custodire il convento. Secondo la Costituzione di Innocenzo X è soggetto alla giurisdizione vescovile, anche se i miei predecessori hanno trascurato di visitarlo”[10]. Ma la tenacia dei frati domenicani fece sì che il convento continuasse a sopravvivere sia agli attacchi dei vescovi sia al terremoto del 1738. Non riuscì, però, a sopravvivere ai duri decreti e leggi di Giuseppe Bonaparte prima e Gioacchino Murat dopo, per cui durante il Decennio della dominazione francese il convento di s. Domenico cessò di esistere a Belcastro[11].

 


[1] ASV, Relatione del Con.to di San Dom.co di Belcastro, S. C. Stat. Regul., Relations, 25, ff. 751 -755.

[2] ASV, Relationes ad Limina, Bellicastren, a. 1645.

[3] ASV, Relationes ad Limina, Bellicastren, a. 1692.

[4] ID., a. 1699.

[5] ID., a. 1703.

[6] ID., a. 1718.

[7] F. Russo, Regesto Vaticano per la Calabria, vol. I, Roma 1974, doc. 5374.

[8] ASV, Relationes ad Limina, Bellicastren, a. 1727.

[9] ID., a. 1735.

[10] ID., a. 1758.

[11] U. Caldora, Calabria napoleonica (1806-1815), Napoli 1960, p. 221.

 

 

6 dicembre 2008

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