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di Raffaele Piccolo

UN CONTE … RIBELLE.

 

Il conte in questione è Antonio Centelles del quale ne abbiamo parlato già precedentemente.

Saltando quindi la prima fase della sua vita (vedi Accadde … nel 1444), durante la quale venne in possesso della contea di Belcastro assieme a molti altri feudi elencati nell’episodio citato, abbiamo lasciato il conte che, dopo aver fallito nel suo tentativo di ribellione al re Alfonso I d’Aragona, fu costretto ad abbandonare i suoi possedimenti, confiscati dal demanio regio (21 novembre 1444), e obbligato a stabilirsi a Marigliano (nelle vicinanze di Napoli), sotto il discreto controllo delle guardie regie.

Comunque, dopo aver confiscato i feudi del Centelles, il re attuò una politica di collaborazione con gli albanesi che lo avevano aiutato nella repressione; infatti, rendendosi conto che col loro aiuto avrebbe potuto controllare più agevolmente i riottosi baroni del regno, affidò agli albanesi alcune terre da ripopolare. Fu così che le terre di Andali e Marcedusa, che con l’andare del tempo si erano spopolate, furono assegnate a truppe albanesi che, oltre a costituire presidi fedeli al re, misero a coltura quelle terre fino allora abbandonate e, quindi, la contea di Belcastro si arricchì di un altro casale[1].

Infatti, Andali e Marcedusa prima di tale periodo non risultano censiti nel “Liber Focorum” del 1443[2], per cui si presume che, dopo il primo popolamento del 1409, i due luoghi si erano spopolati e, in occasione di questo secondo ripopolamento, Andali assunse il nuovo nome di Villa Aragona, in onore della casa regnante[3].

Ma l’ex conte di Belcastro, che non si era rassegnato alla perdita dei suoi beni e mal sopportando il domicilio coatto di Marigliano, riuscì a fuggire furtivamente, mettendosi al servizio militare, prima, della repubblica veneta e, poi, di quella ambrosiana le quali gli affidarono il comando di alcune schiere di soldati.

A Milano, però, accusato di tramare contro la repubblica, guidata da Francesco Sforza, fu da questi fatto arrestare e rinchiuso nel carcere di Lodi e poi in quello più sicuro di Pavia.

La moglie Enrichetta Ruffo, nel frattempo, era riuscita ad ottenere il perdono dal re Alfonso I d’Aragona[4], il quale tolse il veto di residenza a don Antonio Centelles, ancora in prigione a Pavia.

 Saputo dell’indulto reale, il Centelles  - che, oltre al suo carattere turbolento, era anche abile nelle evasioni – si organizzò per fuggire e così, corrotte le guardie, riuscì a calarsi dalle segrete al fossato del castello riconquistando la libertà.

Giunto a Napoli non ottenne la restituzione dei suoi feudi; gli fu data, però, la carica di siniscalco del regno che gli assicurava un grosso appannaggio, ma lo costringeva a risiedere a Napoli e, quindi, sotto il diretto controllo della corte. E a Napoli restò fino alla morte del sovrano (27 giugno 1458).

Il nuovo re Ferdinando I, detto anche Ferrante, però, si rifiutò di effettuare il consueto donativo della Chinea[5] al papa Callisto III il quale, rifacendosi alla bolla di investitura di papa Eugenio IV ad Alfonso I, nella quale era contenuta la clausola che al regno “nullus succedat, qui non fuerit ex legitimo matrimonio procreatus”, dichiarò il sovrano illegittimo[6] alla successione di Alfonso I in quanto, secondo il pontefice, Ferdinando non era figlio legittimo. Con una bolla del 12 luglio 1458 il papa vietava alle popolazioni del regno di Napoli, pena la scomunica e l’interdetto, l’ubbidienza al nuovo sovrano. Contemporaneamente, scioglieva dal giuramento di fedeltà i feudatari del regno. Di conseguenza, i legittimi eredi della corona erano gli appartenenti alla casa d’Angiò, in quanto discendenti della defunta regina Giovanna II d’Angiò.

In questo clima di conflitto fra regno e papato i feudatari si tennero estranei alla disputa ma -pur sempre gelosi dei loro privilegi e, quindi, insofferenti al potere regio- erano pronti con “le alle alzate[7]” a spiccare il volo verso il probabile vincitore angioino o aragonese.

E, mentre nel resto del regno aleggiava questa atmosfera di attesa ed indecisione, in Calabria le cose andarono diversamente.

Don Antonio Centelles, che fremeva continuamente per impossessarsi dei suoi feudi, approfittando della scomunica del papa e dell’incertezza che regnava, incominciò subito a tramare con Giovanni Antonio Orsini principe di Taranto[8], Marino Marzano principe di Rossano[9], Antonio Caldora conte di Trivento[10] e Giosia Acquaviva i quali decisero di offrire la corona del regno a Renato d’Angiò il quale, ottenuto l’appoggio del re di Francia e della repubblica genovese che gli avrebbe dovuto fornire la flotta per il trasporto delle truppe, reclamò l’investitura del regno di Napoli al papa Pio II, apprestandosi a venire nel regno.

Il Centelles, senza attendere la venuta del d’Angiò, radunò circa 400 soldati a Marigliano e, dopo essersi recato a Taranto e reclutati altri 400 armati fornitigli dal suo consuocero Orsini, nell’ottobre 1458[11], si diresse in Calabria con il chiaro intento di sollevare la popolazione.

Per evitare la rivolta, Ferrante cercò un’intesa con il principe di Taranto[12] il quale chiese la restituzione dei feudi per il con suocero don Antonio Centelles. Il re accondiscese alle richieste del principe Orsini promettendo la restituzione dei vecchi feudi a don Antonio, ma, quest’ultimo, con modi sprezzanti, rispose che le sue terre non le voleva restituite dal re, ma le avrebbe riprese con le armi.

Giunto, dunque, in Calabria il Centelles ebbe buon gioco ad infervorare contro il re gli umori del popolo calabrese sempre più esasperato dalla crisi economica e dai tributi reali[13]; e quindi gli fu facile denigrare la casa d’Aragona ed aizzare le folle di quasi tutta la regione, dando così alla rivolta un carattere popolare che, per tal motivo, fu detta rivolta dei villani.

Giustamente il Pontieri ha evidenziato lo stato di caos che don Antonio riuscì a scatenare in tutta la Calabria: “gli avvenimenti della Calabria … s’incalzano e si confondono l’uno con l’altro. Non si tratta difatti d’una rivoluzione che accomuni in qualche modo gli ordini sociali del paese: in questo si scatenano a un tempo le fazioni baronali, insolentiscono i contadini, tumultuano le popolazioni urbane … le forze qua si uniscono, là si accavallano e si elidono … E’ un formidabile incendio, che viene a squassare la Calabria; un incendio il quale, spento in un punto, divampa in un altro, per riaccendersi là ove le fiamme sembravano placate … Rapidamente le antiche fazioni si ricomposero nel nome del duca Giovanni d'Angiò e di re Ferrante … La passione di parte fu così accesa, che da qualche famiglia esulò la pace domestica”[14].

In questo ambiente confuso e convulso, “in mezzo a questo scenario striato di fiamme, il Centelles senza eccessivi sforzi s’era in poco tempo impadronito dei suoi antichi feudi, fatta eccezione di Santaseverina, di Crotone, di Le Castella e di Catanzaro”.

Belcastro, quindi, nel 1458 ritornò a don Antonio Centelles, senza che i presidi regi lo potessero impedire “perché li tempi sonno tanti asperi che male se possono fare imprese”.

Infatti, le truppe reali, che nel frattempo erano state rinforzate da circa seimila uomini comandati da Alfonso d'Avalos e Carlo Monforte di Campobasso, si erano mostrate incapaci a mantenere nella regione l’ordine e prevenire le insurrezioni che esplosero, come si è visto, contemporaneamente in luoghi diversi, costringendo i soldati del re a sparpagliarsi e, quindi, dividere le proprie forze.

Ma agli inizi della primavera del 1459 il d’Avalos e il Monforte riuscirono a cogliere i primi successi. Cadute in mano aragonese Taverna e Sellia, fu poi la volta di Barbaro che costituiva l’avamposto della contea di Belcastro.

Don Antonio Centelles, dopo questi risvolti, si asserragliò dentro Belcastro che costituiva il caposaldo della rivolta. Il luogo, infatti, con i suoi ripidi seicento metri di altezza, oltre a dominare la vasta pianura sottostante, si mostrava imprendibile e, con le sue difese militari, costituiva la tipica città-fortezza[17] entro la quale erano affluiti, oltre alle truppe del Centelles, anche i numerosi rivoltosi dei casali cosentini.

Giunti sotto Belcastro, il d'Avalos ed il Monforte posero l’accampamento nella pianura, in località La Battaglia.

I terrazzani di Belcastro, essendo di numero molto superiore ai soldati regi e per questo convinti di prevalere facilmente, anziché prepararsi all’assedio, il 9 maggio 1459, decisero di scendere a valle e dare subito battaglia.

Essi però, pur essendo una “ingentem agrestium multitudinem”[18], erano in massima parte non avvezzi all’uso delle armi e poco inclini alla tattica militare. Erano contadini e pastori le cui condizioni di vita stentata era stata ancora più impoverita dai gravami fiscali degli agenti di stato sempre più voraci. Coinvolti dall’abile politica del Centelles contro il giogo aragonese, avevano aderito in massa alla rivolta che per loro rappresentava la liberazione di ogni peso. “Scendere nella lotta dinastica era come combattere, nella loro accesa immaginazione, per liberarsi dai pesi fiscali ... e, per quanto si fossero assuefatti alla miseria, sognavano, a somiglianza di tutte le plebi ignoranti, condizioni di vita migliore”[19].

Per cui, eccitati da questo anelito ad una vita migliore e resi impazienti dal fermento degli animi e dalla vista dell’odiato nemico, al grido “carne, carne! … morano, morano!”, si scagliarono con tutta la loro rabbia, ma in maniera disordinata e scomposta, contro le fila serrate delle truppe regie, causando così confusione sia negli ordini sia nella tattica della battaglia. Il D’Avalos, che aveva fatto disporre gli armati a forma di quadrato, riuscì a scompigliare l’urto disordinato degli attaccanti; ma, nonostante la buona posizione e la disciplina dei soldati aragonesi, si verificò una lotta cruenta che si trasformò in una serie di duelli corpo a corpo tanto da far sembrare indeciso il combattimento. Alla fine, pur essendosi battuti da forsennati, i ribelli dovettero arrendersi contro le organizzate e meglio armate truppe del d’Avalos. Sul campo rimasero centinaia e centinaia di morti, tanto che la battaglia fu un vero e proprio massacro[20] e molti di loro furono fatti prigionieri. Nell’apprendere la notizia della vittoria e del gran numero di prigionieri fatti, Ferrante non indugiò a dare ordini precisi e di estrema severità: “Nde sia facta aspra justicia … prestamente, senza aspectare da nui altra consulta, dandoce sì presta executione …, ca per punitione de li dicti ribelli et exempio et terrore de li altri, volemo omniuno, che cussì se facza”. Al massacro, quindi, si aggiunse l’eccidio e molti prigionieri furono passati crudelmente a fil di spada.

Gli scampati alla battaglia di Belcastro, fra cui il Centelles, con la fuga attraverso i monti, raggiunsero la piana di Santa Eufemia; ma, il 2 giugno, furono intercettati a Maida dalle truppe del d'Avalos il quale inflisse loro una sconfitta ancora più atroce di quella del 9 maggio[22].

Gli eccidi di Belcastro e di Maida fecero tanto scalpore che lo stesso re ne rimase colpito e per tal motivo richiamò a Napoli Alfonso d'Avalos ed inviò in Calabria i suoi emissari Antonio d’Alessandro e Stefano de Comitibus col fine di convincere i capi della rivolta a desistere dalla ribellione; ma il loro intento non riuscì perché le masse, sia per la vendetta che covavano in seguito agli uccisi nelle due battaglie sia perché il sistema fiscale, di cui ne era stata chiesta la modifica ai due emissari, rimase lo stesso[23], si riorganizzarono al comando del cosentino ‘Cola Tosti[24], che era riuscito a stringere particolari relazioni e collegamenti  con gli abitanti dei casali casentini, e ripresero ad ingrossarsi di numero.

Anche il Centelles si diede un gran da fare per sobillare gli indecisi; così la rivolta riprese nuovo vigore: “non meno di 20.000 villani in armi mettevano a ferro e fuoco campagne e centri abitati”[25] e tutti, contadini, feudatari e città demaniali, si rifiutarono di pagare i tributi: “Non v’è homo -comunicava Tommaso da Reate a Francesco Sforza- che paghi né focolari, né sale, che li Signori se li godono per se et le Comune quelli proprij”.

Visto che la situazione stava per diventare di nuovo incandescente, Ferrante -che non aveva tralasciato mai di trattare con il principe di Taranto Giovanni Antonio Orsini che era il tramite del Centelles- ricorse anche all’astuzia. Fingendo intenti pacifici verso don Antonio, il 7 giugno, scrisse a Giovanni Barresi[28] e a Michele di Manlio, rispettivamente castellani di Catanzaro e Crotone, di consegnare quei feudi agli emissari del principe di Taranto[29] il quale, a sua volta, li avrebbe dovuti consegnare al genero Antonio Centelles junior; contemporaneamente fece scarcerare Giacomo e Alfonso Centelles, fratelli del marchese di Crotone, facendo credere a quest’ultimo che aveva dimenticato ogni tradimento.

Don Antonio, allora, cadde nel tranello e si ritirò da ogni contesa, offrendosi addirittura di domare i rivoltosi in cambio, però, che i suoi feudi, che nel frattempo erano passati al principe di Taranto, fossero restituiti a lui personalmente, cosa che il re fece.

Nello stesso tempo, deciso a risolvere definitivamente -diremmo oggi- la questione Calabria, nel settembre del 1459, Ferrante scese personalmente nella regione e il 4 dello stesso mese assalì Castiglione che poco prima aveva ospitato ‘Cola Tosti e le sue bande. La città, dopo essere stata presa, fu messa a sacco, costringendo gli abitanti a consegnare tutte le loro derrate; poi il re diede l’ordine che tutte le case fossero incendiate al calare della notte in modo che i bagliori delle fiamme fossero scorti dalle popolazioni vicine le quali, impaurite e “cum molte lagrime et cum la currigia alla gola … vennero a domandare misericordia et pietà del loro grave errore”.

Dopo aver soggiornato alcuni giorni a Cosenza, Ferrante procedette verso sud, giungendo il 20 settembre a Piano Lago, vicino Amantea, dove fece disporre il campo.

Il Centelles, sicuro ormai del perdono e fidando di più nella sua furberia che nell’astuzia del re, si recò a Piano Lago assieme a suo fratello Giacomo per prestare l’omaggio a Ferrante [31]. Il re si mostrò molto cordiale e, dopo aver cavalcato insieme al marchese, lo congedò ripromettendosi di rivederlo il giorno dopo; don Antonio ritornò al campo assieme a suo fratello e ad alcuni suoi sostenitori, ma il re, che aveva già dato disposizioni affinché tutti venissero catturati, li fece arrestare e rinchiudere nel castello di Martorano e poi in quello di Cosenza, ritenuto più sicuro.

L’arresto del Centelles scompigliò tutti i suoi partigiani e, infatti, il re così si compiaceva in una lettera scritta a Giovanni Carafa: “L’armata de li nimici quando ha saputo de la presa di d. Antonii Centelles, non ha avisato imprendere cosa alcuna”. Subito dopo Ferrante pose l’assedio a Catanzaro, durante il quale morì sugli spalti ‘Cola Tosti trafitto da una freccia. Caduta la città, anche Belcastro, Roccabernarda, Santaseverina, Cirò e altre terre scesero a patti. Continuavano a resistere soltanto Crotone e Le Castelle, ma, dopo un massiccio bombardamento di terra e di mare, furono anch’esse costrette a chiedere la resa.

Troncata ogni velleità, il baronato calabrese si vide costretto a sottomettersi all’autorità regia.

Nei primi giorni di ottobre il re Ferrante entrava a Belcastro dove, con un privilegio datato 8 ottobre 1459, confermava “alla terra di Cropani tutti li privilegii, indulti, e grazie fin’a quel tempo conceduti,e confermati da’ suoi antecessori, fra quali è ‘l demanio, conceduto dal re suo padre; rimette le pene di qualunque delitto, ed i residui de’ pagamenti fiscali, con le franchezze di cinque anni, dichiarando ch’il tutto concedeva per servizi notabili, ricevuti dagl’uomini di detta università, ed incaricando l’essecuzione del tutto ad Alfonso duca di Calabria suo figliuolo”[33].

Il 13 novembre del 1459 Ferrante fece ritorno a Napoli, traendo prigioniero don Antonio Centelles nelle segrete di Castel Novo.

Belcastro così ritornava sotto il governo dell’autorità regia. 


[1] Il casale di Andali fu aggregato alla contea di Belcastro, mentre Marcedusa a quella di Santaseverina. Un altro piccolo distaccamento di Albanesi andò a popolare la terra di Arietta, vicino Mesoraca.

[2] Il Liber Focorum era l’elenco dei fuochi o famiglie tassate.

[3] Il nome di Villa Aragona, in verità, non durò molto; infatti già nella prima metà del secolo successivo il casale riprese la sua vecchia dizione di Andali.

[4] Per la sua bontà fu detto anche Il Magnanimo.

[5] Era l’usanza del tributo feudale che i sovrani del regno di Napoli pagavano al papato in qualità di vassalli e risaliva a Ruggero II d’Altavilla.

[6] Ferrante era nato in Spagna nel 1423 da una relazione segreta di Alfonso.

[7] Ali alzate.

[8] Giovan Antonio Orsini era, per parte di madre, zio della moglie di Ferrante, Isabella di Chiaromonte; mentre, per parte di sua figlia, consuocero del Centelles: il figlio di quest’ultimo, anche lui di nome Antonio, aveva sposato la figlia del principe Orsini.

[9] Aveva sposato una figlia naturale di Ferrante ed era anche congiunto con i Ruffo e quindi col Centelles.

[10] Era uno dei più grandi feudatari d’Abruzzo con molta influenza a corte.

[11] Il Centelles fu anche sollecitato dal cognato Carlo Ruffo di Sino poli.

[12] La trattativa con il principe di Taranto fu condotta dalla regina Isabella, nipote dello stesso Orsini, la quale “di volontà del marito andata al Principe di Taranto zio suo in abito di frate de zoccoli, et selli buttasse alli piedi et supplicasse che poiché l’havea fatta Regina, la facesse morire Regina et che il Principe vinto di pietà nela rimandasse dandoli buon animo”.

[13] Nel parlamento del 1456 i feudatari ed i rappresentanti delle terre demaniali avevano avanzato ad Alfonso richieste di diminuzione dei gravami fiscali senza alcun esito.

[14] Emblematico è l’esempio riportato della famiglia Caracciolo: “Il conte di Arena parteggiò per l’angioino; la moglie si serbò fedele a Ferrante, al quale era costretta a dissimulare la condotta del marito; la loro figlia, Maria, nutrì i sentimenti del padre, onde il rammarico del suo ammiratore, il poeta spagnolo Juan Tapia, con cui s’era incontrata a corte di Alfonso I”.

[17] Oltre che di scoscese mura e torri, era munita anche dei due castelli, rinforzati dallo stesso Centelles al tempo della prima rivolta contro il Magnanimo.

[18] Il Pontano li fece ascendere a 12.000, ma la cifra è giudicata esagerata.

[19] Id., p. 222.

[20] Il luogo dove si svolse la feroce battaglia prese il nome da questo evento, denominandosi appunto La Battaglia.

[22] Il  d'Avalos, nel descrivere al re la battaglia, così riferiva: “mediante la gratia del nostro Signore Dio ed de san Giorgio li avimo rupti per una collina in su che credemo veramente sia stata virtù divina haverli rupti in talle luocho ad tante grande esercito quanto erano loro in si forte luocho; per quello che se trovano ne avimo morti più de cinquecento e presi tanti che omne uno era straco de amazare; che ne avimo pigliati tanti ch’erano pieni li alogiamenti et vedendo ch’erano più li presi che nuy fecemo tagliare tutti a pezo ed impiccare. Si che ne piace ad honore et triumpho de la regia m.tà fare luminaria e festa”.

[23] I rivoltosi avevano chiesto di poter pagare soltanto le colte, cioè l’antica colletta dell’epoca di Giovanna II e non quelle imposte dal Magnanimo, ma gli inviati del re diedero soltanto risposte molto ambigue.

[24] Il Tosti, in un combattimento precedente nei pressi del fiume Savuto, aveva impegnato seriamente gli stessi armati del D’Avalos.

[25] Cfr. E. Pontieri, La Calabria…, cit., p. 227.

[28] Giovanni, fratello del più noto Maso Barrese, morì nel 1461 durante uno scontro con gli abitanti dei casali cosentini.

[29] Segretamente, però, faceva sapere ai due castellani di ritardare il più possibile, con vari pretesti, la consegna dei feudi.

[31] Il Dito, invece, afferma che l’incontro fra i due si svolse il 23 settembre a Nicastro.

[33] Come ci narra il Fiore, i cittadini di Cropani godettero di tale privilegio perché, anche questa volta, non si schierarono con il Centelles, ma si rifugiarono sui monti sovrastanti.

17 luglio 2003

 

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