UN CONTE … RIBELLE.
Il conte in questione è Antonio Centelles del
quale ne abbiamo parlato già precedentemente.
Saltando quindi la prima fase della sua vita (vedi
Accadde …
nel 1444), durante la quale venne in possesso della contea di Belcastro
assieme a molti altri feudi elencati nell’episodio citato, abbiamo lasciato il
conte che, dopo aver fallito nel suo tentativo di ribellione al re Alfonso I
d’Aragona, fu costretto ad abbandonare i suoi possedimenti, confiscati dal
demanio regio (21 novembre 1444), e obbligato a stabilirsi a Marigliano (nelle
vicinanze di Napoli), sotto il discreto controllo delle guardie regie.
Comunque, dopo aver confiscato i feudi del
Centelles, il re attuò una politica di collaborazione con gli albanesi che lo
avevano aiutato nella repressione; infatti, rendendosi conto che col loro aiuto
avrebbe potuto controllare più agevolmente i riottosi baroni del regno, affidò
agli albanesi alcune terre da ripopolare. Fu così che le terre di Andali e
Marcedusa, che con l’andare del tempo si erano spopolate, furono assegnate a
truppe albanesi che, oltre a costituire presidi fedeli al re, misero a coltura
quelle terre fino allora abbandonate e, quindi, la contea di Belcastro si
arricchì di un altro casale.
Infatti, Andali e Marcedusa prima di tale periodo
non risultano censiti nel “Liber Focorum” del 1443,
per cui si presume che, dopo il primo popolamento del 1409, i due luoghi si
erano spopolati e, in occasione di questo secondo ripopolamento, Andali assunse
il nuovo nome di Villa Aragona, in onore della casa regnante.
Ma l’ex conte di Belcastro, che non si era
rassegnato alla perdita dei suoi beni e mal sopportando il domicilio coatto di
Marigliano, riuscì a fuggire furtivamente, mettendosi al servizio militare,
prima, della repubblica veneta e, poi, di quella ambrosiana le quali gli
affidarono il comando di alcune schiere di soldati.
A Milano, però, accusato di tramare contro la
repubblica, guidata da Francesco Sforza, fu da questi fatto arrestare e
rinchiuso nel carcere di Lodi e poi in quello più sicuro di Pavia.
La moglie Enrichetta Ruffo, nel frattempo, era
riuscita ad ottenere il perdono dal re Alfonso I d’Aragona,
il quale tolse il veto di residenza a don Antonio Centelles, ancora in prigione
a Pavia.
Saputo dell’indulto reale, il Centelles -
che, oltre al suo carattere turbolento, era anche abile nelle evasioni – si
organizzò per fuggire e così, corrotte le guardie, riuscì a calarsi dalle
segrete al fossato del castello riconquistando la libertà.
Giunto a Napoli non ottenne la restituzione dei
suoi feudi; gli fu data, però, la carica di siniscalco del regno che gli
assicurava un grosso appannaggio, ma lo costringeva a risiedere a Napoli e,
quindi, sotto il diretto controllo della corte. E a Napoli restò fino alla morte
del sovrano (27 giugno 1458).
Il nuovo re Ferdinando I, detto anche
Ferrante, però, si rifiutò di effettuare il consueto donativo della
Chinea
al papa Callisto III il quale, rifacendosi alla bolla di investitura di papa
Eugenio IV ad Alfonso I, nella quale era contenuta la clausola che al regno
“nullus succedat, qui non fuerit ex legitimo matrimonio procreatus”, dichiarò il
sovrano illegittimo
alla successione di Alfonso I in quanto, secondo il pontefice, Ferdinando non
era figlio legittimo. Con una bolla del 12 luglio 1458 il papa vietava alle
popolazioni del regno di Napoli, pena la scomunica e l’interdetto, l’ubbidienza
al nuovo sovrano. Contemporaneamente, scioglieva dal giuramento di fedeltà i
feudatari del regno. Di conseguenza, i legittimi eredi della corona erano gli
appartenenti alla casa d’Angiò, in quanto discendenti della defunta regina
Giovanna II d’Angiò.
In questo clima di conflitto fra regno e papato i
feudatari si tennero estranei alla disputa ma -pur sempre gelosi dei loro
privilegi e, quindi, insofferenti al potere regio- erano pronti con “le alle
alzate”
a spiccare il volo verso il probabile vincitore angioino o aragonese.
E, mentre nel resto del regno aleggiava questa
atmosfera di attesa ed indecisione, in Calabria le cose andarono diversamente.
Don Antonio Centelles, che fremeva continuamente
per impossessarsi dei suoi feudi, approfittando della scomunica del papa e
dell’incertezza che regnava, incominciò subito a tramare con Giovanni Antonio
Orsini principe di Taranto,
Marino Marzano principe di Rossano,
Antonio Caldora conte di Trivento
e Giosia Acquaviva i quali decisero di offrire la corona del regno a Renato
d’Angiò il quale, ottenuto l’appoggio del re di Francia e della repubblica
genovese che gli avrebbe dovuto fornire la flotta per il trasporto delle truppe,
reclamò l’investitura del regno di Napoli al papa Pio II, apprestandosi a venire
nel regno.
Il Centelles, senza attendere la venuta del
d’Angiò, radunò circa 400 soldati a Marigliano e, dopo essersi recato a Taranto
e reclutati altri 400 armati fornitigli dal suo consuocero Orsini, nell’ottobre
1458,
si diresse in Calabria con il chiaro intento di sollevare la popolazione.
Per evitare la rivolta, Ferrante cercò un’intesa
con il principe di Taranto
il quale chiese la restituzione dei feudi per il con suocero don Antonio
Centelles. Il re accondiscese alle richieste del principe Orsini promettendo la
restituzione dei vecchi feudi a don Antonio, ma, quest’ultimo, con modi
sprezzanti, rispose che le sue terre non le voleva restituite dal re, ma le
avrebbe riprese con le armi.
Giunto, dunque, in Calabria il Centelles ebbe buon
gioco ad infervorare contro il re gli umori del popolo calabrese sempre più
esasperato dalla crisi economica e dai tributi reali;
e quindi gli fu facile denigrare la casa d’Aragona ed aizzare le folle di quasi
tutta la regione, dando così alla rivolta un carattere popolare che, per tal
motivo, fu detta rivolta dei villani.
Giustamente il Pontieri ha evidenziato lo stato di
caos che don Antonio riuscì a scatenare in tutta la Calabria: “gli avvenimenti
della Calabria … s’incalzano e si confondono l’uno con l’altro. Non si tratta
difatti d’una rivoluzione che accomuni in qualche modo gli ordini sociali del
paese: in questo si scatenano a un tempo le fazioni baronali, insolentiscono i
contadini, tumultuano le popolazioni urbane … le forze qua si uniscono, là si
accavallano e si elidono … E’ un formidabile incendio, che viene a squassare la
Calabria; un incendio il quale, spento in un punto, divampa in un altro, per
riaccendersi là ove le fiamme sembravano placate … Rapidamente le antiche
fazioni si ricomposero nel nome del duca Giovanni d'Angiò e di re Ferrante … La
passione di parte fu così accesa, che da qualche famiglia esulò la pace
domestica”.
In questo ambiente confuso e convulso, “in mezzo a
questo scenario striato di fiamme, il Centelles senza eccessivi sforzi s’era in
poco tempo impadronito dei suoi antichi feudi, fatta eccezione di Santaseverina,
di Crotone, di Le Castella e di Catanzaro”.
Belcastro, quindi, nel 1458 ritornò a don Antonio
Centelles, senza che i presidi regi lo potessero impedire “perché li tempi sonno
tanti asperi che male se possono fare imprese”.
Infatti, le truppe reali, che nel frattempo erano
state rinforzate da circa seimila uomini comandati da Alfonso d'Avalos e Carlo
Monforte di Campobasso, si erano mostrate incapaci a mantenere nella regione
l’ordine e prevenire le insurrezioni che esplosero, come si è visto,
contemporaneamente in luoghi diversi, costringendo i soldati del re a
sparpagliarsi e, quindi, dividere le proprie forze.
Ma agli inizi della primavera del 1459 il d’Avalos
e il Monforte riuscirono a cogliere i primi successi. Cadute in mano aragonese
Taverna e Sellia, fu poi la volta di Barbaro che costituiva l’avamposto della
contea di Belcastro.
Don Antonio Centelles, dopo questi risvolti, si
asserragliò dentro Belcastro che costituiva il caposaldo della rivolta. Il
luogo, infatti, con i suoi ripidi seicento metri di altezza, oltre a dominare la
vasta pianura sottostante, si mostrava imprendibile e, con le sue difese
militari, costituiva la tipica città-fortezza
entro la quale erano affluiti, oltre alle truppe del Centelles, anche i numerosi
rivoltosi dei casali cosentini.
Giunti sotto Belcastro, il d'Avalos ed il Monforte
posero l’accampamento nella pianura, in località La Battaglia.
I terrazzani di Belcastro, essendo di numero molto
superiore ai soldati regi e per questo convinti di prevalere facilmente, anziché
prepararsi all’assedio, il 9 maggio 1459, decisero di scendere a valle e dare
subito battaglia.
Essi però, pur essendo una “ingentem agrestium
multitudinem”,
erano in massima parte non avvezzi all’uso delle armi e poco inclini alla
tattica militare. Erano contadini e pastori le cui condizioni di vita stentata
era stata ancora più impoverita dai gravami fiscali degli agenti di stato sempre
più voraci. Coinvolti dall’abile politica del Centelles contro il giogo
aragonese, avevano aderito in massa alla rivolta che per loro rappresentava la
liberazione di ogni peso. “Scendere nella lotta dinastica era come combattere,
nella loro accesa immaginazione, per liberarsi dai pesi fiscali ... e, per
quanto si fossero assuefatti alla miseria, sognavano, a somiglianza di tutte le
plebi ignoranti, condizioni di vita migliore”.
Per cui, eccitati da questo anelito ad una vita
migliore e resi impazienti dal fermento degli animi e dalla vista dell’odiato
nemico, al grido “carne, carne! … morano, morano!”, si scagliarono con tutta la
loro rabbia, ma in maniera disordinata e scomposta, contro le fila serrate delle
truppe regie, causando così confusione sia negli ordini sia nella tattica della
battaglia. Il D’Avalos, che aveva fatto disporre gli armati a forma di quadrato,
riuscì a scompigliare l’urto disordinato degli attaccanti; ma, nonostante la
buona posizione e la disciplina dei soldati aragonesi, si verificò una lotta
cruenta che si trasformò in una serie di duelli corpo a corpo tanto da far
sembrare indeciso il combattimento. Alla fine, pur essendosi battuti da
forsennati, i ribelli dovettero arrendersi contro le organizzate e meglio armate
truppe del d’Avalos. Sul campo rimasero centinaia e centinaia di morti, tanto
che la battaglia fu un vero e proprio massacro
e molti di loro furono fatti prigionieri. Nell’apprendere la notizia della
vittoria e del gran numero di prigionieri fatti, Ferrante non indugiò a dare
ordini precisi e di estrema severità: “Nde sia facta aspra justicia …
prestamente, senza aspectare da nui altra consulta, dandoce sì presta executione
…, ca per punitione de li dicti ribelli et exempio et terrore de li altri,
volemo omniuno, che cussì se facza”. Al massacro, quindi, si aggiunse l’eccidio
e molti prigionieri furono passati crudelmente a fil di spada.
Gli scampati alla battaglia di Belcastro, fra cui
il Centelles, con la fuga attraverso i monti, raggiunsero la piana di Santa
Eufemia; ma, il 2 giugno, furono intercettati a Maida dalle truppe del d'Avalos
il quale inflisse loro una sconfitta ancora più atroce di quella del 9 maggio.
Gli eccidi di Belcastro e di Maida fecero tanto
scalpore che lo stesso re ne rimase colpito e per tal motivo richiamò a Napoli
Alfonso d'Avalos ed inviò in Calabria i suoi emissari Antonio d’Alessandro e
Stefano de Comitibus col fine di convincere i capi della rivolta a desistere
dalla ribellione; ma il loro intento non riuscì perché le masse, sia per la
vendetta che covavano in seguito agli uccisi nelle due battaglie sia perché il
sistema fiscale, di cui ne era stata chiesta la modifica ai due emissari, rimase
lo stesso,
si riorganizzarono al comando del cosentino ‘Cola Tosti,
che era riuscito a stringere particolari relazioni e collegamenti con gli abitanti dei casali casentini, e ripresero ad ingrossarsi di
numero.
Anche il Centelles si diede un gran da fare per
sobillare gli indecisi; così la rivolta riprese nuovo vigore: “non meno di
20.000 villani in armi mettevano a ferro e fuoco campagne e centri abitati”
e tutti, contadini, feudatari e città demaniali, si rifiutarono di pagare i
tributi: “Non v’è homo -comunicava Tommaso da Reate a Francesco Sforza- che
paghi né focolari, né sale, che li Signori se li godono per se et le Comune
quelli proprij”.
Visto che la situazione stava per diventare di
nuovo incandescente, Ferrante -che non aveva tralasciato mai di trattare con il
principe di Taranto Giovanni Antonio Orsini che era il tramite del Centelles-
ricorse anche all’astuzia. Fingendo intenti pacifici verso don Antonio, il 7
giugno, scrisse a Giovanni Barresi
e a Michele di Manlio, rispettivamente castellani di Catanzaro e Crotone, di
consegnare quei feudi agli emissari del principe di Taranto
il quale, a sua volta, li avrebbe dovuti consegnare al genero Antonio Centelles
junior; contemporaneamente fece scarcerare Giacomo e Alfonso Centelles, fratelli
del marchese di Crotone, facendo credere a quest’ultimo che aveva dimenticato
ogni tradimento.
Don Antonio, allora, cadde nel tranello e si
ritirò da ogni contesa, offrendosi addirittura di domare i rivoltosi in cambio,
però, che i suoi feudi, che nel frattempo erano passati al principe di Taranto,
fossero restituiti a lui personalmente, cosa che il re fece.
Nello stesso tempo, deciso a risolvere
definitivamente -diremmo oggi- la questione Calabria, nel settembre del
1459, Ferrante scese personalmente nella regione e il 4 dello stesso mese assalì
Castiglione che poco prima aveva ospitato ‘Cola Tosti e le sue bande. La città,
dopo essere stata presa, fu messa a sacco, costringendo gli abitanti a
consegnare tutte le loro derrate; poi il re diede l’ordine che tutte le case
fossero incendiate al calare della notte in modo che i bagliori delle fiamme
fossero scorti dalle popolazioni vicine le quali, impaurite e “cum molte lagrime
et cum la currigia alla gola … vennero a domandare misericordia et pietà del
loro grave errore”.
Dopo aver soggiornato alcuni giorni a Cosenza,
Ferrante procedette verso sud, giungendo il 20 settembre a Piano Lago, vicino
Amantea, dove fece disporre il campo.
Il Centelles, sicuro ormai del perdono e fidando
di più nella sua furberia che nell’astuzia del re, si recò a Piano Lago assieme
a suo fratello Giacomo per prestare l’omaggio a Ferrante.
Il re si mostrò molto cordiale e, dopo aver cavalcato insieme al marchese, lo
congedò ripromettendosi di rivederlo il giorno dopo; don Antonio ritornò al
campo assieme a suo fratello e ad alcuni suoi sostenitori, ma il re, che aveva
già dato disposizioni affinché tutti venissero catturati, li fece arrestare e
rinchiudere nel castello di Martorano e poi in quello di Cosenza, ritenuto più
sicuro.
L’arresto del Centelles scompigliò tutti i suoi
partigiani e, infatti, il re così si compiaceva in una lettera scritta a
Giovanni Carafa: “L’armata de li nimici quando ha saputo de la presa di d.
Antonii Centelles, non ha avisato imprendere cosa alcuna”.
Subito dopo Ferrante pose l’assedio a Catanzaro, durante il quale morì sugli
spalti ‘Cola Tosti trafitto da una freccia. Caduta la città, anche Belcastro,
Roccabernarda, Santaseverina, Cirò e altre terre scesero a patti. Continuavano a
resistere soltanto Crotone e Le Castelle, ma, dopo un massiccio bombardamento di
terra e di mare, furono anch’esse costrette a chiedere la resa.
Troncata ogni velleità, il baronato calabrese si
vide costretto a sottomettersi all’autorità regia.
Nei primi giorni di ottobre il re Ferrante entrava
a Belcastro dove, con un privilegio datato 8 ottobre 1459, confermava “alla
terra di Cropani tutti li privilegii, indulti, e grazie fin’a quel tempo
conceduti,e confermati da’ suoi antecessori, fra quali è ‘l demanio, conceduto
dal re suo padre; rimette le pene di qualunque delitto, ed i residui de’
pagamenti fiscali, con le franchezze di cinque anni, dichiarando ch’il tutto
concedeva per servizi notabili, ricevuti dagl’uomini di detta università, ed
incaricando l’essecuzione del tutto ad Alfonso duca di Calabria suo figliuolo”.
Il 13 novembre del 1459 Ferrante fece ritorno a
Napoli, traendo prigioniero don Antonio Centelles nelle segrete di Castel Novo.
Belcastro così ritornava sotto il governo
dell’autorità regia.
Emblematico è l’esempio riportato della famiglia Caracciolo: “Il conte di
Arena parteggiò per l’angioino; la moglie si serbò fedele a Ferrante, al
quale era costretta a dissimulare la condotta del marito; la loro figlia,
Maria, nutrì i sentimenti del padre, onde il rammarico del suo ammiratore,
il poeta spagnolo Juan Tapia, con cui s’era incontrata a corte di Alfonso
I”.
17 luglio 2003 |