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di Raffaele Piccolo

L’EX CATTEDRALE DI S. MICHELE ARCANGELO

(I Parte)

 

Il primo a parlare dell’erezione della chiesa cattedrale di Belcastro fu l’erudito cropanese padre Giovanni Fiore[1], affermando che un certo “Angiolo Carbone, patrizio della medesima città, il quale, non avendo eredi, e per altro essendo uomo facoltoso, volle dal suo istituirne il Cielo con la fondazione di una sedia vescovile, per il cui sostenimento le assegnò quanto possedeva, palagi, vigne, tenute di terre, e singolarmente il feudo detto Spertuso[2].

E’ ovvio che non fu il Carbone a fondare la “sedia vescovile” ma Polieuto o Poileucto, patriarca di Costantinopoli, vissuto al tempo dell’imperatore Niceforo Foca, nei primi anni della seconda metà del secolo IX.

Probabilmente il Fiore volle riferire che il patrizio belcastrese, con la sua lauta donazione, contribuì a rendere più decorosa la chiesa vescovile dotandola dei suoi averi. Quindi, la donazione del Carbone non poteva essere riferita al secolo IX, quando fu istituita la diocesi[3], perché il Fiore credeva che la “sedia vescovile” fosse stata innalzata dopo l’anno 1000, tant’è che egli indica come primo vescovo di Belcastro Policreto, il quale è ricordato  - anche dallo storico cropanese -  come vescovo di Belcastro che visse nella prima metà del 1100[4].  Quindi il riferimento ad Angelo Carbone, ammessane la sua esistenza, è da collocare in quest’ultimo periodo.

La cattedrale di Belcastro fu innalzata sotto il titolo di s. Michele arcangelo, la cui immagine costituiva l’effige del sigillo capitolare della diocesi vescovile. Il santo era festeggiato due volte l’anno: l’8 maggio con processione ed il 12 settembre con la sola celebrazione della messa solenne.

 I primi documenti storici che parlano di edifici religiosi belcastresi sono stati pubblicati da P. Russo[5]  il quale dice che, nel 1093, Ruggero I d’Altavilla assegnò le entrate delle terre dell’abbazia di s. Maria di Belcastro alla chiesa della ss. Trinità di Mileto[6] per ingrandirne il prestigio, cui seguirono  nel 1107  – questa volta ai padri benedettini di Lipari –  le donazioni delle terre dei conventi belcastresi di s. Michele Arcangelo e di s. Nicola di Myria[7]. Il Russo, nello stesso periodo, parla ancora di Belcastro, citando la chiesa della Madonna della Sana[8].

Poiché le chiese dei monasteri non fungevano da chiese vescovili, potremmo ipotizzare che l’edificio della Madonna della Sana fu, molto probabilmente, la prima chiesa cattedrale di Belcastro, giacché dal periodo delle donazioni di Ruggero I a quello della fondazione del seggio vescovile di Belcastro non era trascorso molto tempo e, quindi, non poteva esservi la necessità di costruire una seconda chiesa per un piccolo centro qual era allora Belcastro.

Per individuarne il sito bisogna rifarsi alla storia edilizia del tempo che era costituita dagli unici rioni di Castellaci, Fra-le-mura e Fornara, appena sotto il castello-recinto bizantino. Di conseguenza, la chiesa della Madonna della Sana, cioè della Salute, o comunque della cattedrale, doveva essere ubicata in uno di questi tre rioni che, verosimilmente, potrebbe essere quello di Castellaci dove vi è una zona detta appunto Salute.

L’arrivo dei normanni (1075) e l’assestamento politico portò ad una crescita socioeconomica iniziata già agli albori del 1000. Il paese  - come del resto tutta la regione - fu caratterizzato da un’espansione demografica causata, oltre che dalle mutate situazioni politiche ed economiche[9], anche da un miglioramento della tecnica per la coltivazione delle campagne[10] e della dieta alimentare con la coltivazione  delle leguminose.

Inoltre, per la grande quantità di impiantagione di alberi di gelso iniziata durante la dominazione bizantina e musulmana, si verificò un forte incremento della produzione della seta calabrese[11] che invase tutti i mercati d’Europa.

In conseguenza di questa crescita socioeconomica, si espanse anche l’edilizia urbana del paese verso valle, in direzione del rione Sala, per cui c’è da ipotizzare che anche per la chiesa vescovile, che fino allora era stata di proporzioni modeste, ne sia stata costruita una nuova e di superficie più grande.

È molto probabile che il nuovo edificio sia stato eretto proprio dove ora sorge l’attuale chiesa della Madonna della Pietà[12].

Da una storia della Calabria di Pietro de Galteriis di Taverna del 1569, che però riepiloga e completa un manoscritto del suo avo Giuseppe de Gualteriis risalente al 1229, nel riferire i danni causati dal terremoto del 1214 nella parte orientale del catanzarese, è così è riportato: "Dominus Landulphus Aquinates magnis opera Cathedralem Geneocastri et castrorum renovavit"[13]. Quindi, sappiamo che il terremoto citato causò gravi danni sia al castello (Castellaccio) sia alla cattedrale.

La chiesa vescovile rimase nel nuovo rione della Sala fino al 1331, quando il conte Tommaso II d'Aquino attuò a Belcastro una vera e propria rivoluzione edilizia del paese, per la quale una delle cause fu certamente il tipo di terreno sul quale era edificato l’abitato.

Le case del paese  - come è stato detto -  erano abbarbicate, fino allora, sulle pendici del colle Timpe con la propaggine del nuovo rione della Sala e, quindi, si trovavano su un terreno fortemente arenario e facilmente soggette all’azione devastatrice delle calamità naturali, quali terremoti e piogge torrenziali. Inoltre, il vecchio castello bizantino non si addiceva più alle caratteristiche della difesa militare del tempo.

Tommaso II, perciò, decise di ridisegnare di sana pianta la struttura urbana del paese sulle pendici della collina prospiciente quella delle Timpe, vale a dire ai piedi del colle dove si trova l’attuale castello, costituite da rocce fortemente calcaree che offrivano una resistenza più coesa e stabile sia all’azione dei sismi sia a quella degli alluvioni. Inoltre su quest’ultimo colle si trovava la poderosa torre normanna fatta costruire da Roberto il Guiscardo, nel 1075, per controllare il nipote ribelle Abelardo, assediato nella rocca di Santa Severina10. Il d'Aquino, proprio intorno a questa grande torre, costruì un nuovo castello più grande e più difendibile del Castellaccio bizantino sopra il colle delle Timpe.

Infatti, se si facesse il raffronto fra le mura del vecchio castello bizantino, del quale permangono ancora alcuni spezzoni, e quelle del nuovo castello costruito da Tommaso II ci si accorgerebbe subito che quest’ultime sono di gran lunga più robuste e più alte; come pure la torre centrale del Castellaccio presenta mura e altezza di molto inferiore alla torre normanna, adattata dal d'Aquino come mastio del nuovo castello.

Contemporaneamente, fu costruita anche la nuova chiesa vescovile nelle immediate adiacenze delle mura esterne del nuovo castello, probabilmente dove si trovava il vecchio convento bizantino di s. Michele Arcangelo, forse ormai in decadenza per la privazione dei suoi beni a favore della chiesa di Mileto.

Spostati i centri del potere amministrativo ed ecclesiastico, si modificò anche l’edilizia del paese. Si iniziarono a costruire abitazioni nelle attuali vie Castello e s. Nicola, mentre la via Grecìa  - il cui inizio (da via Murate) era abitato dagli ebrei -  andò infoltendosi con nuove case.

La chiesa vescovile, quindi, cambiò luogo ancora una volta e definitivamente.

Ovviamente, la struttura architettonica della chiesa non è quella del 1331 perché, nel corso dei secoli, ha subito numerosi rifacimenti.

Le condizioni della diocesi e, quindi, anche quelle della chiesa cattedrale, incominciano ad essere descritte dalle Relationes ad Limina che i vescovi erano tenuti a compilare ogni tre anni[14].

Naturalmente, le rendite della mensa[15] vescovile riflettevano quelle più in generale l’economia del paese, il quale fino ai primi anni del 1500  - secondo un riferimento del vescovo Antonio Lauro -  “florebat civium nobilitate, multitudinem, et frugum abundantia”[16]. Ma dopo il primo trentennio del secolo, l’andamento economico del paese, che fino allora aveva goduto di una certa prosperità, iniziò a precipitare inesorabilmente, riflettendosi anche sui redditi della mensa la quale, a sua volta, influì sullo stato della cattedrale in maniera abbastanza negativa.

Nel 1532 vi fu un terremoto che se non fece crollare l’edificio, ne minò certamente le strutture. Infatti, nel 1542, risultava “penitus collapsa”[17], certamente per un terremoto o incendio, tanto che il papa Paolo III, il 12 settembre dello stesso anno, proprio nella festa di s. Michele, concedeva l’indulgenza di un giorno ai visitatori e a coloro che avrebbero contribuito a risollevarla.

Nella prima relazione della diocesi, a firma del vescovo Orazio Schipani (1591-1596) e nominato vescovo di Belcastro l’1 novembre 1591[18], è riferito che le entrate della cattedrale ammontavano a ducati 800 l’anno[19]. La chiesa aveva quattro dignità capitolari che erano il decanato, il cantorato, l’arcidiaconato e il tesorierato, tutti prebendati. Accanto alle dignità vi era anche la prebenda teologale o penitenzerìa, la quale aveva pochi ducati d’entrata. Per le altre chiese del paese  - delle quali il vescovo non cita i nomi -  vi erano altri quattro canonici prebendati con annui ducati 10. Vi erano, infine altri 25 preti non prebendati[20]. La chiesa vescovile, quindi, aveva un reddito abbastanza basso, ma fu dotata da monsignor Schipani di alcune reliquie, provenienti dalla basilica di vaticana e consegnategli a Roma dal duca di Mantova Vincenzo I Gonzaga, su mandato del cardinale di s. Maria in Cosmedin, Ascanio Colonna[21]. Il vescovo, inoltre, evidenziava anche il basso profilo culturale del canonici “dei quali nessuno v’è che sia doctore”[22]. Nella chiesa, inoltre, i “beneficia simplicia nulla sunt nisi duo de patronatus exigui valoris”[23].

Ma le condizioni del paese, sia per le calamità naturali che in quegli anni si erano abbattute con una certa frequenza[24] sia per la cattiva amministrazione dei suoi feudatari, peggioravano sempre più e con esso anche quelle della cattedrale. La decadenza della diocesi era aggravata, oltre che dalle calamità naturali e dalle ristrettezze economiche, anche dalla mancata presenza dei vescovi che spesso risiedevano a Roma o Napoli o nei loro luoghi di origine, anche per lunghi periodi dell’anno, lasciando così la loro sede diocesana in completo stato di abbandono. La lontananza del vescovo, poi, favoriva l’usurpazione dei beni della mensa vescovile[25] che in tal modo si impoveriva sempre più e le conseguenze si ripercuotevano inesorabilmente sulla stato della cattedrale. Questa situazione di malessere, oltre ad essere evidenziata in quasi tutte le Relationes, è significativamente dimostrata dal continuo susseguirsi dei vescovi che, appena potevano, optavano per un’altra sede: dal 1595 al 1615 si registrarono ben sette vescovi, il che lascia immaginare la scarsa volontà dei prelati a voler restare nella diocesi belcastrese, eccetto pochissimi che ressero il seggio vescovile per diversi anni.

Il vescovo Antonio Lauro (1599-1608) patrizio di Tropea, nella sua relazione del 1603, descriveva la stato di tenuità della diocesi e riferiva che la chiesa “non habet Seminarium propter tenuitatem redditum” e che a mala pena poteva “parvam familiam cum ipsius indignitate sostentare”. Il vescovo, inoltre, riferiva di aver nominato un maestro in modo che “possit pro fuggienda crassa ignorantia” dei chierici istruirli[26].

Alla morte di monsignor Lauro, avvenuta nel 1609, il seggio vescovile rimase vacante per ben due anni ed una delle ragioni di questa vacanza, come di altre ancora, fu sempre lo scarso reddito della mensa, per la quale molti vescovi, adducendo motivi vari, mostravano di preferire sedi migliori.

Le sorti della chiesa si risollevarono un pò con la nomina del vescovo emerito Gerolamo Ricciulli (1616-1626) patrizio reggino ma originario di Rogliano Calabro, avvenuta il 5 dicembre 1616. “Doctissimus juris consultus”, il nuovo vescovo era stato gran lettore di canoni a Roma, oltre che apprezzato personaggio in molte accademie letterarie della capitale. Appena preso possesso della diocesi, rivendicò alcuni beni della chiesa usurpati dalla famiglia Sersale e restaurò dapprima la cattedrale nelle pareti, nel tetto e nel pavimento. Ne riparò anche la scalinata di accesso, fece rifare il bastone pastorale, il piviale e due pianete di seta, oltre a fornire di suppellettili di legno l’altare. Fece costruire anche  il coro ligneo  - che ancora si conserva nella cattedrale -  e il sacello per la statua di s. Michele, la porta maggiore fu rifatta in maniera artistica, riparò il soffitto ligneo, e acquistò e preparò il materiale sia per ricostruire la sacrestia in forma più ampia ed in un luogo migliore[27] sia per rifare l’altare maggiore[28].

Nel 1634 il sindaco dei nobili della città collocò  - come riferiva il vescovo del tempo Bartolomeo Gizio (1633-1639) -  un nuovo sedile per il magistrato cittadino ed il papa Urbano VIII l’anno dopo diede la possibilità alla chiesa di impiegare i proventi delle pene per l’acquisto delle cose sacre necessarie, che verosimilmente erano andate distrutte o danneggiate durante il terremoto.

La relazione è comunque, è importante perché ci riferisce che, nel mese di ottobre dell’anno precedente, d’accordo con il capitolo vescovile, fu decisa l’istituzione del seminario[29].

In una relazione del vescovo Gizio (1633-1639), datata 11 dicembre 1636, viene riportata l’ultimazione del seminario al mese di ottobre del 1635[30], dove un “Praeceptor Grammaticae” insegnava ai primi quattro chierici della diocesi. Il prelato dichiarava che per la sua costruzione erano stati spesi centotrenta ducati, oltre le “elemosine” dei fedeli; mentre per il suo sostentamento la mensa vescovile impegnava trentacinque ducati l’anno e, per il prosieguo, si riprometteva di nominare anche un “Praeceptor cantus”. Il vescovo faceva notare pure che aveva chiesto alle dignità prebendate, le cui entrate erano di per sé misere, di integrare con proprie offerte  - con cadenza il 15 ottobre, 15 febbraio e 15 luglio -  al mantenimento del seminario.

La relazione, poi, accenna a due contenziosi che la cattedrale aveva in merito al pagamento delle decime.

La prima lite era sorta con la mensa vescovile di Catanzaro la quale pretendeva la decima del pascolo  - consistente in un tomolo di frumento per ogni paia di buoi -  da alcuni pastori casentini i quali, secondo la tesi della mensa catanzarese, pascolavano in territorio di Cropani la cui parrocchia faceva parte della diocesi di Catanzaro. Il vescovo Gizio, invece, sosteneva che le mandrie si trovavano in territorio di Belcastro e, quindi, ne reclamava le decime. Come andò a finire la questione non ci è dato sapere.

Il secondo contenzioso fu con il catanzarese Cesare Marincola che aveva in fitto il fondo di Magliacane, di proprietà del convento di S. Stefano del Bosco (Serra S. Bruno). Il Marincola riteneva di dover pagare le decime al monastero, mentre il vescovo Gizio faceva presente che, trovandosi Magliacane in territorio di Belcastro, il pagamento doveva essere effettuato alla sua mensa. Della questione ne fu investito il Nunzio apostolico di Napoli il quale riconobbe al prelato belcastrese il diritto alle decime, pena la scomunica del Marincola.

Ma i guai della chiesa cattedrale di Belcastro non erano ancora finiti, anzi peggiorarono ancora di più.

Nel 1638 un terremoto colpì il paese provocandovi seri danni, anche se non causò vittime; ma un altro più forte e più calamitoso si verificò nel 1645 ed i suoi effetti  - specie sul paese -  sono descritti nella seconda relazione del vescovo Francesco de Napoli (1639-1652), datata 1 dicembre dello stesso anno.

Egli riferisce che, sebbene un tempo la chiesa fosse “in media Urbe sita”, al momento della relazione si trovava “extra Urbem posita”.

Ciò ci induce a pensare che l’evento sismico aveva completamente distrutto le due strade di accesso alla chiesa che erano la via Grecia e la via Castello[31], isolando la chiesa dal paese, anche se essa non subì danni irreparabili. Il fatto che il vescovo, però, riferisse che la chiesa rimase isolata significa sicuramente che la via Grecìa si era trasformata in un cumulo di rovine. Oltre al loro crollo, le case erano state investite anche dallo smottamento del terreno soprastante e dalla conseguente caduta dei massi del castello, rendendo il popoloso rione un luogo di macerie e costringendo gli abitanti a trovare in altra parte del paese una propria sistemazione. Con lo spopolamento del rione, la chiesa situata alla sommità della strada rimase perciò isolata.

Comunque, sebbene percossa dal terremoto, lo stato generale dell’edificio “nullam appetit restaurationem”, segno che la violenza del sisma non causò gravi danni alla struttura. Il coro, però, nella sua parte superiore era crollato in molte parti[32] e riparato in maniera grossolana. Il prelato continua la sua relazione dicendo che fece riparare il coro in maniera più gradevole, fornendolo di statue e scudi scolpiti[33] in ogni parte ed aprendo nella parete di fondo una “magnificam fenestram”, tuttora esistente.

La cappella del ss. Sacramento, però, era in pessimo stato, anche se la cupola era stata costruita con maestria con pietre del luogo, piccole e lucide: con le offerte dei fedeli, che ammontavano a 30 ducati, riparò la volta e fece restaurare il pavimento della cappella, dotandola pure di statue e di due pitture murali.

 Acquistò ogni ornamento necessario alla chiesa e precisamente tre pianete di seta di vari colori, tovaglie di altare riccamente ricamate, una sopraveste (amidicum) e un cingolo, quattro messali, sei corporali[34], venti purificatoi[35], veli  e pallii. Fece costruire anche la stalla vescovile e quella dei canonici.

Il documento di monsignor De Napoli, inoltre, riferisce che nella chiesa si trovavano un’immagine di Cristo crocefisso ed un’altra di s. Michele arcangelo finemente lavorate in argento; vi erano anche quattro calici con piatti dorati e paramenti del pontificale usurati dal tempo.

Il rapporto vescovile continua la sua annotazione affermando che il fonte battesimale si trovava sul lato sinistro della chiesa, mentre davanti la cappella della ss. Eucaristia[36] vi erano varie sepolture e così pure davanti l’altare maggiore. L’unico organo esistente era difettoso, mentre il campanile era dotato di tre campane, delle quali la maggiore, acquistata per mille sesterzi, era lesionata. Nella chiesa vi erano tre cappelle laiche: la prima era quella del ss. Sacramento[37], sotto il patronato della famiglia D’Orso con un reddito annuo di 30 ducati, della quale però ci è sconosciuto il carico delle messe; la seconda sotto il titolo del ss. Sangue di Cristo, con patronato della famiglia Ballatore, anch’essa con reddito annuo di 30 ducati e un carico di tre messe settimanali e la terza, sotto il titolo del ss. Salvatore, era sotto il patronato delle “Anime dei Morti”, cioè di tutti i fedeli che chiedevano la celebrazione delle messe per i propri defunti, ed aveva un reddito annuo di 10 ducati.

Ma la situazione economica della mensa non accennava a migliorare perché “vero temporibus cum Provincia Calabria terremotis, aliisque oneribus regijs ogent, et animalibus vacet, nec non maxima pauperitate praematur, territori magna pars inculta remanent, et in locos covertitur”: essa ammontava appena a 600 ducati[38]. Se il terremoto non aveva arrecato danni irreparabili alla chiesa, aveva distrutto gran parte degli edifici abitativi e prostrato l’economia del paese i cui terreni rimanevano incolti per mancanza di manodopera e per la moria degli animali, per l’epidemia che ne conseguì e i pesanti fardelli imposti dal governo regio.

Nonostante ciò, la devozione dei fedeli si dimostrò sempre maggiore. Una relazione del vescovo napoletano Carlo Sgombrino (1652-1672) del 1659[39] riferisce che nella chiesa cattedrale vi erano quattro giuspatronati: il ss. Sangue di Cristo, della famiglia Ballatore, con 26 ducati annui; del ss. Crocefisso con 20 ducati; mentre la vecchia cappellania del ss. Salvatore era stata mutata nella cappella di s. Paolo e in quella di s. Gregorio, sempre sotto il patronato delle “Anime dei Morti”, delle quali però non è riportato l’annuo reddito. Il seminario, inoltre, aveva un proprio reddito di ducati 25, al quale andavano ad aggiungersi i redditi dei due conventi soppressi che ammontavano a ducati 60[40].

I vari vescovi che si susseguirono al seggio vescovile di Belcastro[41] tentarono di risollevare le condizioni della chiesa ma, o per negligenza o per impotenza o per scarso attaccamento, non ottennero risultati soddisfacenti.

Toccò al vescovo Giovanni Emblaviti di Bova (1688-1722) cercare di tirare su le sorti della cattedrale.  Già dopo il primo anno del suo presulato un altro terribile terremoto aveva colpito nuovamente Belcastro facendo crollare il seminario e causando seri danni alla cattedrale. Infatti il vescovo, nella sua relazione del 19 agosto 1692[42], scriveva che il seminario “erat dirutum et inabitabile” per cui molti seminaristi furono costretti a frequentare quello di Catanzaro. Egli stesso fu costretto a prendere alloggio nell’ex convento di s. Francesco perché il palazzo vescovile risultava anch’esso crollato[43].

Con i tenui proventi della mensa vescovile[44]  - che quell’anno aveva fruttato una rendita di appena 460 ducati, dei quali 120 erano stati spesi per l’acquisto di suppellettili e paramenti della cattedrale -  e l’esenzione dell’invio alla curia romana delle quote delle decime il vescovo cercò di riparare i guasti causati dal terremoto.

Egli riferiva anche che, poiché la strada che conduceva alla cattedrale era diventata un viottolo angusto e pericoloso per la caduta di nuovi massi e l’accumularsi di nuove macerie su quelle del terremoto del 1645 che ancora vi persistevano[45], fece costruire una “novam viam planam”[46]. Dato che le due strade che allora conducevano alla cattedrale erano la via Grecìa e la via Castello, è da presumere che la nuova strada fatta costruire dal vescovo Emblaviti sia stata quella che oggi da piazza Lamia porta appunto alla cattedrale, cioè via Vescovado, che in effetti rispetto alla pendenza delle due vecchie strade è meno accentuata. Inoltre, riparò il seminario con 350 ducati offerti dal cavaliere gerosolimitano Eufemio Barulato, cappellano della chiesa di s. Giovanni Battista[47].

Il vescovo riportava, poi, che nella cattedrale vi erano 5 cappelle o altari ed era stata riattivata nella chiesa anche la confraternita (congrega) del ss. Rosario[48] che andava ad aggiungersi a quelle di altre chiese.

Nonostante gli sforzi profusi dal vescovo Emblaviti, il suo successore monsignor Angelo Gentile (1722-1729), trovò una situazione disastrata: sia la chiesa che il palazzo vescovile erano ridotti a ruderi[49]. Il vescovo però non instaurò buoni rapporti sia con il feudatario Alfonso Poerio sia con il suo clero. La rivendicazione di alcuni beni lo fecero entrare in conflitto con il barone che, ovviamente, gli rifiutò ogni collaborazione per il restauro della chiesa e del palazzo vescovile. Così pure venne in contrasto sia con il capitolo sia con i padri cappuccini del convento di s. Francesco, tanto che si rese necessario un arbitrato del vescovo di Oppido, monsignore Perrimezzi, il quale per appianare le due questioni impiegò ben trenta giorni[50].

Nonostante le incomprensioni ed i litigi, il vescovo riuscì a riparare il campanile e a rifare il coro della chiesa con i pochi fondi rimasti nel “Mons Puellarum”[51], per la “mala administratione Procuratorum”[52].

Ma i cattivi rapporti fra il vescovo e il clero si riaccesero nuovamente nel 1746, sotto il presulato di Giovan Battista Capuani (1729-1751), successore di Anglo Gentile.

Già nel 1731 il vescovo era venuto in urto con la famiglia Jazzolino  - che era una delle più ragguardevoli del paese e godeva del sostegno indiretto del barone Alfonso Poerio -  per aver fatto arrestare dal tribunale ecclesiastico un chierico appartenente a questa famiglia. La situazione divenne tale che lo stesso vescovo, durante la processione del Corpus Domini, fu minacciato pubblicamente con la pistola in pugno dai fratelli del chierico. Di fronte a tale affronto e all’inerzia dell’ordine civico il vescovo decise di andare ad abitare a Andali. Inoltre, gran parte del clero, non avendo gradito la decisione di monsignor Capuani e forse sentendosi abbandonato, solidarizzò con il chierico arrestato, per cui subentrò una situazione confusa e molto tesa. La questione venne affrontata nel 1746, dal papa che inviò a Belcastro il vescovo di Squillace Marco Antonio Annaffi per aprire l’inchiesta e risolvere la situazione. Ma il vescovo squillacese, o perché le parti non recedevano dai loro propositi o perché non seppe imporsi data la sua tarda età, non riuscì nel suo intento anche perché fu colto dalla morte nel 1747. L’inchiesta fu proseguita dal suo successore, monsignor Francesco Saverio Maria di Queralt e Aragona il quale, certamente per il suo alto lignaggio e per la sua forte personalità, riuscì a risolvere la complicata e difficile missione, riconducendo all’obbedienza sia il clero che la popolazione e riconsacrando nuovamente la cattedrale al culto.

Morto monsignor Capuani, gli successe il salernitano Giacobbe Guacci (1752-1755) che nei circa tre anni del suo presulato risedette ben poco a Belcastro. Il suo successore, Tommaso Fabiani (1755-1778) di San Pietro a Maida, rifece l’altare maggiore ed alzò la volta della cappella, oltre a rifare nuovamente il coro.

Ma i guai della cattedrale ritornarono ancora una volta con il terremoto del 1783 che, pur non causando vittime, arrecò danni al paese e quindi alla chiesa, vanificando il lavoro del vescovo Fabiani. Infatti, a tre anni dal sisma, il vicario capitolare monsignor Bruno Cirillo lamentava lo stato di rovina ed abbandono della chiesa: la facciata anteriore dell’edificio presentava delle crepe laterali che la distaccavano dai muri laterali, il campanile era rimasto in gran parte lesionato ed il seminario crollato quasi del tutto[53]. Soltanto nel 1787 il Supremo Consiglio delle Finanze Reali di Napoli chiedeva alla Giunta di Corrispondenza Catanzaro di monitorare e periziare gli edifici religiosi colpiti dal sisma ed avviare le gare di appalto per il restauro. Alla Giunta di Catanzaro, che per Belcastro chiedeva quali fossero i danni della chiesa, il vicario capitolare rispondeva che l’episcopio, là dove non si era potuto intervenire negli anni 1783-1787[54], risentiva dell’abbandono in cui era stato lasciato per dieci anni, mentre della cattedrale era “lesa nel muro anteriore e il suo campanile, son quasi rovinati i di lei tetti cosicché scolano le acque in detta chiesa e infracidano il legname”[55]. Così scriveva l’Ufficiale Commissionato Giacinto Ceniti a proposito della cattedrale: “quella chiesa Cattedrale sta per rovinare nei tetti e nelle intempiate scorrendo acqua dappertutto in maniera che il Popolo, i Canonici, e gli altri del Clero stian soffrendo dei gravissimi incomodi, che nella sagrestia si bagnano tutte le sacre suppellettili”[56]. La Giunta di Catanzaro incaricò l’ingegnere Claudio Rocchi a redigere le perizie preliminari necessarie per definire i lavori di ricostruzione sia della chiesa che dell’episcopio e del seminario, ma tali lavori si trascinarono per lungo tempo anche perché, fra l’altro, l’amministrazione dei fondi della Cassa Sacra risultò alquanto complessa e a volte poco chiara: infatti, nel 1791, erano stati eseguiti soltanto i lavori di copertura delle navate e la pavimentazione[57]. Restavano ancora da restaurare la facciata centrale ed i lavori di rifinitura interni. Incaricato di eseguire una seconda perizia dei danni non ancora riparati fu il mastro muratore Carmine Gentile di Andali il quale, il 3 novembre 1793, nel suo resoconto evidenziava il persistere del pericolo della facciata anteriore, di cui una parte era crollata e la restante risultava staccata ancora dai muri laterali[58].

È il caso di dire, però, che il completo stato di abbandono e degrado della cattedrale in quel periodo, oltre alle calamità naturali, alle ristrettezze della mensa e alle lungaggini burocratiche della Giunta, fu dovuto anche alla lunga vacanza intercorsa dalla morte di monsignor Fabiani (1778) alla nomina di monsignor Vincenzo Greco (1792-1805) di Crotone, durata per ben quattordici anni, pur se dal 1785 al 1792 vi era stata la nomina di monsignor Francesco Ganini di Gioia Tauro che non fu quasi mai presente in sede sia per gli avvenimenti calamitosi del tempo e la precarietà della chiesa sia anche per la sua scarsa propensione a recarsi a Belcastro[59].

Con la nomina del vescovo Vincenzo Greco (1792) le cose incominciarono a prendere il verso giusto. Il presule, preso possesso della sede, seguì personalmente l’andamento dei lavori che finalmente furono portati a termine. L’illuminazione della navata centrale fu migliorata con l’apertura di altre due finestre nelle due pareti in alto, le cabriate del tetto furono coperte da un soffitto ligneo sul quale fu dipinta la vita di s. Tommaso d'Aquino[60], fu eretto un nuovo altare maggiore, rifinita la cappella del ss. Sacramento, restaurati gli stalli lignei ed eseguite tutte le altre piccole riparazioni atte a rendere pienamente fruibile al culto l’edificio.

Ma se la cattedrale, dopo anni di abbandono e degrado, era stata riportata alla sua piena funzionalità, non fu così per il seminario ed il palazzo vescovile.

Quest’ultimo  - come si rileva dalla perizia dell’ingegnere Pietro Antonio Rocchi datata 31 marzo 1792[61] -  era costruito su due livelli, dentro le mura del diroccato castello, al lato sinistro della chiesa e ad essa direttamente collegato attraverso un “passetto”[62] coperto e sopraelevato che immetteva direttamente nella cattedrale e del quale oggi rimane soltanto l’arco di sostegno[63].

Il primo livello dell’edificio, che fungeva da abitazione del vescovo, era costituito da tre vani e da un loggiato che si affacciava verso la facciata anteriore della chiesa e sulla sottostante via Grecìa. Il secondo livello comprendeva cinque vani ed un altro loggiato e costituiva l’abitazione del vicario capitolare e la cancelleria vescovile. A fianco vi erano poi le abitazioni della servitù e i locali di servizio.

Il palazzo vescovile però non fu mai ricostruito perché, come risulta da una documentazione della Regia Udienza di Catanzaro, il vescovo e la sua curia furono ospitati, almeno fino al 1796, nel palazzo baronale della famiglia Poerio[64].

Probabilmente l’edificio non fu riedificato per mancanza di fondi e per la morte di monsignor Greco (1806), alla quale seguì una lunga vacanza durata fino al 1818[65], anno in cui fu abolito il vescovado[66].

Un’altra ragione potrebbe essere stata quella che sin dall’inizio del 1800 era nell’aria il varo della riforma ecclesiastica che si concretizzò, poi, con il Concordato tra Pio VII e Ferdinando I di Borbone nel 1816 e con il quale venivano aboliti i vescovadi di piccola entità come quello di Belcastro.

Per tal motivo, forse, non si ritenne utile ricostruire il palazzo vescovile ed il seminario,  dato che non ce ne sarebbe stato più bisogno: oggi rimangono soltanto i pochissimi ruderi del seminario, mentre  del palazzo vescovile soltanto una piccola parte di pavimentazione, di fronte il “passetto” e, con lavori di scavi, potrebbero affiorare le sue fondamenta.[67].


 


[1] Il Fiore visse nella seconda metà del secolo XVI e morì nel 1683 senza che la sua poderosa opera fosse pubblicata. Attese a tale compito il padre cappuccino Giovanni da Belvedere che, nel 1691, pubblicò il primo tomo, cui seguirono nel tempo gli altri tomi.

[2] G. FIORE, Della Calabria illustrata, a cura di U. Nisticò, t. II, Soveria Mannelli 1999, p. 537. Per quanto riguarda la localizzazione del feudo Spertuso ci è sconosciuta.

[3] La diocesi fu costituita come sede suffraganea dell’arcidiocesi di Santa Severina e si pensa che la data di fondazione sia stata intorno all’868.

[4] Fu, probabilmente il vescovo che fondò, nel 1112, il capitolo diocesano. Nel 1121, fu accanto al papa Callisto II, nel suo viaggio in Calabria nel tentativo di pacificare il duca Guglielmo d’Altavilla con il conte di Sicilia Ruggero II;  fu anche presente, il 28 settembre dello stesso anno, alla consacrazione della cattedrale di Catanzaro e, nel gennaio seguente, al sinodo di Crotone presenziato da Callisto II che si era ancora trattenuto nella regione.

[6] Ruggero d’Altavilla aveva posto la sua base a Mileto, in attesta di conquistare la Sicilia occupata dai musulmani.

[8]

 

[9] Lasciatosi alle spalle l’incubo delle incursioni saracene ed assestatosi politicamente, la popolazione calabrese incominciò a coltivare le campagne con nuovi dissodamenti e disboscamenti, provocando un forte impulso all’economia che sfociò in un grande incremento demografico.

[10] In questo periodo furono molte le invenzioni della tecnica che contribuirono notevolmente alla crescita socioeconomica dei centri abitati: al vecchio aratro in legno si sostituì la punta del vomere in ferro, per un’aratura del suolo più efficace e più rapida; la sostituzione del bue col cavallo migliorò i lavori dei campi e dei trasporti; la diffusione dell’attracco a tandem degli animali da traino apportò molto giovamento sia in agricoltura che nei trasporti.

[11] In quel periodo e fino al 1400 la Sicilia e la Calabria erano i principali produttori d’Europa della seta fine, prodotta dai gelsi bianchi.

[12] Non era raro il caso che una nuova chiesa venisse costruita su un’altra preesistente: nel nostro caso, la chiesa della Madonna della Pietà potrebbe essere sorta, a sua volta, sulla seconda chiesa vescovile, giacchè la terza erezione della cattedrale avvenne nel secolo XIV sul suo sito attuale.

[14] Le relazioni, imposte dal Concilio di Trento (1545-1563), erano rapporti che i vescovi inviavano al pontefice per descrivere lo stato della diocesi e della sua popolazione durante il loro presulato.

[15] Era il patrimonio terriero e immobiliare delle proprietà del vescovado.

[16] Archivio Segreto Vaticano (ASV), Sacra Congregatione Concilii (SCC), Relationes ad Limina, Belcastro, anno 1603. Si fa notare che tutti i vocaboli in lingua latina sono riportati così come sono nei documenti.

[17] Distrutta: cfr. F. Russo, Regesto Vaticano per la Calabria,  Roma 1978, IV, p. 85.

[18] Proveniva da una famiglia del ceto benestante di Taverna che, in seguito, sarà ascritta a quello nobiliare con la baronia della Leporina, vicino Sellia.

[19] Le entrate, generalmente, erano costituite dal fitto dei terreni per il pascolo delle mandrie provenienti dalla Sila, nel periodo autunno-primavera. Altre risorse provenivano da mulini e frantoi, oltre che dalle offerte dei fedeli alla chiesa.

[20]  ASV, SCC, Relationes ad Limina, Belcastro, a. 1592.

[21] F. Russo, Regesto …, cit., V, 1978, p. 173: “Ascanio, tt. Sanctae Mariae in Cosmedin. Diaconi Cardinali Columnae nuncupato, mandat ut ex Basilica Principis Apostolorum Urbis aliquas reliquiarum particulas extrahat pasque tradat Horatio, episcopo Bellicastren., Nobilis Viro Vincentio, Duci Mantuae et Monferrati Principi assignanda”. È possibile che lo Schipani ottenne le reliquie grazie all’amicizia che lo legava al papa Innocenzo IX del quale, prima dell’elezione al soglio pontificio, era stato familiare durante il suo presulato di  vescovo di Nicastro; tant’è che uno dei primissimi atti del nuovo pontefice, eletto il 29 ottobre 1592, fu quello di nominare vescovo di Belcastro Orazio Schipani (1 novembre) che, molto probabilmente, sarebbe stato innalzato anche alla porpora cardinalizia se non fosse stato improvvisamente colto dalla morte.

[22] ASV, SCC, Relationes ad Limina, Belcastro, anno 1592.

[23] Id., anno 1595. Il documento, pur segnalando i due patronati laici, non ne menziona i titoli e le famiglie che ne avevano la cura.

[24] Terremoti di varia entità si erano succeduti nel 1527, 1532 e 1538.

[25] I terreni della mensa, a pascolo e/o semitativo, come risulta da una relazione del 1799, venivano dati in fitto e si trovavano a: Botro, affittato a Bruno Scalise; Magliacane a Benedetto Colosimo,  un Arcuri aveva in fitto un altro fondo a Botricello, un Mascaro la Gabella di Raymondo; mentre Costantino Bianco e Pietro Paolo Fragale avevano in affitto ‘Ntoni Mazza: cfr. ASV, SCC, Relationes ad Limina, Belcastro, a. 1603.

[26] Id., a. 1603.

[27] È quella vicino il portale sinistro d’ingresso.

[28] ASV, SCC, Relationes ad Limina, Belcastro, a. 1627.

[29] Id., a. 1634.

[30] Id., a. 1636

[31] La via Grecia era la più densamente popolata, mentre sulla via Castello  - che fungeva soprattutto come accesso principale alla rocca -  si trovavano poche abitazioni, data la natura del luogo. Inoltre, l’attuale via Vescovado ancora non esisteva.

[32] “Chorum in super inveni in pluribus partibus collapsum”: cfr. ASV, SCC, Relationes ad Limina, Belcastro, a. 1645.

[33] Rosoni ornamentali.

[34] Tessuto amicado bianco che si posava sull’altare per poggiavi il calice e la patena per la deposizione dell’ostia.

[35] Fazzoletti di lino plissettati utilizzati per asciugare il calice dai residui della purificazione.

[36] Era la cappella del ss. Sacramento.

[37] Questa cappellania era stata fondata dalla famiglia Amone, prima nel 1500.

[38] ASV, SCC, Relationes ad Limina, Belcastro, a. 1659.

[39] Id., a. 1659.

[40] I due conventi erano quello di s. Francesco di Assisi e quello di s. Francesco di Paola.

[41] Carlo Gargano di Bagnoli (1672-1683) si trovò a governare una diocesi decimata e prostrata dalla peste bubbonica del  1672 che egli definì una “vera indignazione di Dio!”; cercò di recuperare anche terre della mensa usurpate da Domenico Caracciolo, fratellastro del duca di Belcastro Carlo I Caracciolo e fittavolo del feudo, col quale venne in forte contrasto per l’ostruzionismo dimostrato dal feudatario. Benedetto Bartolo di Vizzini (1683-1685) fu quasi sempre lontano dalla sede vescovile, preferendo la sua Sicilia. Giovanni Alfonso Petrucci di Cutro (1685 – 1688) sin dall’atto della sua nomina si lamentò per lo stato della diocesi.

[42] ASV, SCC, Relationes ad Limina, Belcastro, a. 1692.

[43] Il palazzo vescovile si trovava nel lato sinistro della chiesa, ad essa collegato tramite un passaggio sopraelevato del quale oggi rimane solo l’arco.

[44]I maggiori proventi, come detto prima, venivano “ex venditione herbaggij”, perché la carenza di manodopera  - la popolazione era di 1.327 abitanti -  aveva condizionato in negativo il regolare sfruttamento dei terreni, la cui maggior parte era rimasta incolta e perciò destinata alla vendita del semplice erbaggio.

[45] Sebbene fossero trascorsi 47 anni dal nefasto terremoto, la ricostruzione della via Grecìa non era stata possibile per altre calamità che si susseguirono al sisma: nel 1673 vi fu la peste bubbonica che causò più vittime del terremoto, con la morte di 300 persone. Il vescovo del tempo Carlo Gargano in maniera realmente tragica descrive la disperazione dei cittadini di Belcastro “ubi morbum epidemicum talem inveni, qui tercentum circiter personas ingredi viam universam carnis effecit, hic gemebat, ille eiulabat, alius praesentis morbis oppressus timore languebat, ossa tremabat, et quod miserandum, talem enim morbum diva fames ob annonem penuriam crudelitatem, qui alter exitiali febre peribat: vera Dei indignatio!”. I trecento decessi spopolarono il paese, causando un calo verticale della produzione e quindi dell’economia. Il vescovo riferiva che di tale decadenza ne risentirono anche gli edifici, sia civili sia religiosi che caddero in uno stato di totale abbandono: cfr. ASV, SCC, Relationes ad Limina, Belcastro, a. 1673.

[46] Id., a. 1692.

[47] Id., a. 1695.

[48] Questa confraternita aveva fatto capo alla chiesa di s. Domenico e si era sciolta con la chiusura del convento proprio nel 1695.

[49] A. Pesavento, La Cattedrale di Belcastro, in «La Provincia di KR», (21), 2000, p. 8.

[50] F. Von Lobstein, Settecento calabrese, Napoli 1973, p. 173.

[51] Era stato istituito nel 1600 da Giovan Battista de Urso per dotare le ragazze indigenti.

[52] ASV, SCC, Relationes ad Limina, Belcastro, a. 1727.

[53] ASCz, Fondo Cassa Sacra, Segreteria Ecclesiastica, “Per l’impiego delle vendite del Vacante Vescovado di Belcastro”, fasc. 1546.

[54] I primi lavori più urgenti del seminario furono eseguiti con i fondi della chiesa.

[55] ASCz, Fondo Cassa Sacra, Segreteria Pagana, fasc. 657, “Disposizioni di fatto per le restaurazioni degli Episcopi, Cattedrali e Seminari. 1787”.

[56] ASCz, Fondo Cassa Sacra, Segreteria Ecclesiastica, fasc. 1546.

[57] ASCz, Fondo Cassa Sacra, Atti vari, Rationalia, b.12, Bilancio d’introito ed esito delle vendite della mensa vescovile di Belcastro dal 1 settembre 1790 ad agosto 1791.

[58] ASCz, Fondo Cassa Sacra, Segreteria Ecclesiastica, fasc. 1753, Atti formati ad istanza del vescovado di Belcastro relativamente ai bisogni degli arredi sacri che tiene questa Cattedrale non che per essere riattato quel Episcopio ed altro come dentro. 1793-1794.

[59] La sua reggenza, come si è detto prima, fu tenuta dal decano Bruno Cirillo.

[60] Durante il restauro del 1952-’53 il tavolato sul quale era riportata la vita del Santo, rovinatosi per le infiltrazioni d’acqua provenienti dal  tetto e non essendo di interesse artistico, fu sostituito da un altro tavolato semplicemente intonacato.

[61] A. Pesavento, La Cattedrale …, cit., p. 8.

[62] Passaggio.

[63] Comunemente indicato come “arco della chiesa”.

[64] ASCz, Fondo Regia Udienza, busta 298, fasc. XIV, Atti civili tra il procuratore della mensa vescovile di Belcastro con D. Vincenzo Poerio. 1796.

[65] La vacanza fu retta dal decano della cattedrale monsignore Giuseppe Fragale di Andali.

[66] La vacanza vescovile fu inframmezzata da monsignor Giovanni Francesco (1812-1816) di Alessandria che, probabilmente, non prese mai possesso effettivo della sede.

[67] Una campagna di scavi sul luogo dove sorgeva il palazzo e la curia vescovile, probabilmente, porterebbe a qualche scoperta archeologica o a qualche rinvenimento di oggettistica: ambedue le cose molto utili ai fini del rilancio turistico del paese che, a quanto si dice, si vorrebbe attuare.

 

17 settembre 2003

 

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