L’EX CATTEDRALE DI S. MICHELE ARCANGELO
(I Parte)
Il primo a parlare dell’erezione della chiesa
cattedrale di Belcastro fu l’erudito cropanese padre Giovanni Fiore,
affermando che un certo “Angiolo Carbone, patrizio della medesima città, il
quale, non avendo eredi, e per altro essendo uomo facoltoso, volle dal suo
istituirne il Cielo con la fondazione di una sedia vescovile, per il cui
sostenimento le assegnò quanto possedeva, palagi, vigne, tenute di terre, e
singolarmente il feudo detto Spertuso”.
E’ ovvio che non fu il Carbone a fondare la “sedia
vescovile” ma Polieuto o Poileucto, patriarca di Costantinopoli, vissuto al
tempo dell’imperatore Niceforo Foca, nei primi anni della seconda metà del
secolo IX.
Probabilmente il Fiore volle riferire che il
patrizio belcastrese, con la sua lauta donazione, contribuì a rendere più
decorosa la chiesa vescovile dotandola dei suoi averi. Quindi, la donazione del
Carbone non poteva essere riferita al secolo IX, quando fu istituita la diocesi,
perché il Fiore credeva che la “sedia vescovile” fosse stata innalzata dopo
l’anno 1000, tant’è che egli indica come primo vescovo di Belcastro Policreto,
il quale è ricordato - anche dallo storico cropanese - come vescovo
di Belcastro che visse nella prima metà del 1100.
Quindi il riferimento ad Angelo Carbone, ammessane la sua esistenza, è da
collocare in quest’ultimo periodo.
La cattedrale di Belcastro fu innalzata sotto il
titolo di s. Michele arcangelo, la cui immagine costituiva l’effige del sigillo
capitolare della diocesi vescovile. Il santo era festeggiato due volte l’anno:
l’8 maggio con processione ed il 12 settembre con la sola celebrazione della
messa solenne.
I primi documenti storici che parlano di edifici
religiosi belcastresi sono stati pubblicati da P. Russo
il quale dice che, nel 1093, Ruggero I d’Altavilla assegnò le
entrate delle terre dell’abbazia di s. Maria di Belcastro alla chiesa della ss.
Trinità di Mileto
per ingrandirne il prestigio, cui seguirono nel 1107 – questa volta
ai padri benedettini di Lipari – le donazioni delle terre dei conventi
belcastresi di s. Michele Arcangelo e di s. Nicola di Myria.
Il Russo, nello stesso periodo, parla ancora di Belcastro, citando la chiesa
della Madonna della Sana.
Poiché le chiese dei monasteri non fungevano da
chiese vescovili, potremmo ipotizzare che l’edificio della Madonna della Sana
fu, molto probabilmente, la prima chiesa cattedrale di Belcastro, giacché dal
periodo delle donazioni di Ruggero I a quello della fondazione del seggio
vescovile di Belcastro non era trascorso molto tempo e, quindi, non poteva
esservi la necessità di costruire una seconda chiesa per un piccolo centro qual
era allora Belcastro.
Per individuarne il sito bisogna rifarsi alla
storia edilizia del tempo che era costituita dagli unici rioni di Castellaci,
Fra-le-mura e Fornara, appena sotto il castello-recinto bizantino. Di
conseguenza, la chiesa della Madonna della Sana, cioè della Salute, o comunque
della cattedrale, doveva essere ubicata in uno di questi tre rioni che,
verosimilmente, potrebbe essere quello di Castellaci dove vi è una zona detta
appunto Salute.
L’arrivo dei normanni (1075) e l’assestamento
politico portò ad una crescita socioeconomica iniziata già agli albori del 1000.
Il paese - come del resto tutta la regione - fu caratterizzato da
un’espansione demografica causata, oltre che dalle mutate situazioni politiche
ed economiche,
anche da un miglioramento della tecnica per la coltivazione delle campagne
e della dieta alimentare con la coltivazione delle leguminose.
Inoltre, per la grande quantità di impiantagione
di alberi di gelso iniziata durante la dominazione bizantina e musulmana, si
verificò un forte incremento della produzione della seta calabrese
che invase tutti i mercati d’Europa.
In conseguenza di questa crescita socioeconomica,
si espanse anche l’edilizia urbana del paese verso valle, in direzione del rione
Sala, per cui c’è da ipotizzare che anche per la chiesa vescovile, che
fino allora era stata di proporzioni modeste, ne sia stata costruita una nuova e
di superficie più grande.
È molto probabile che il nuovo edificio sia stato
eretto proprio dove ora sorge l’attuale chiesa della
Madonna della Pietà.
Da una storia della Calabria di Pietro de
Galteriis di Taverna del 1569, che però riepiloga e completa un manoscritto del
suo avo Giuseppe de Gualteriis risalente al 1229, nel riferire i danni causati
dal terremoto del 1214 nella parte orientale del catanzarese, è così è
riportato: "Dominus Landulphus Aquinates magnis opera Cathedralem Geneocastri et
castrorum renovavit".
Quindi, sappiamo che il terremoto citato causò gravi danni sia al castello
(Castellaccio) sia alla cattedrale.
La chiesa vescovile rimase nel nuovo rione della
Sala fino al 1331, quando il conte Tommaso II d'Aquino attuò a Belcastro una
vera e propria rivoluzione edilizia del paese, per la quale una delle cause fu
certamente il tipo di terreno sul quale era edificato l’abitato.
Le case del paese - come è stato detto -
erano abbarbicate, fino allora, sulle pendici del colle
Timpe con la propaggine del nuovo rione
della Sala e, quindi, si trovavano su un terreno fortemente arenario e
facilmente soggette all’azione devastatrice delle calamità naturali, quali
terremoti e piogge torrenziali. Inoltre, il vecchio castello bizantino non si
addiceva più alle caratteristiche della difesa militare del tempo.
Tommaso II, perciò, decise di ridisegnare di sana
pianta la struttura urbana del paese sulle pendici della collina prospiciente
quella delle Timpe, vale a dire ai piedi del colle dove si trova
l’attuale castello, costituite da rocce fortemente calcaree che offrivano una
resistenza più coesa e stabile sia all’azione dei sismi sia a quella degli
alluvioni. Inoltre su quest’ultimo colle si trovava la poderosa torre normanna
fatta costruire da Roberto il Guiscardo, nel 1075, per controllare il nipote
ribelle Abelardo, assediato nella rocca di Santa Severina10. Il
d'Aquino, proprio intorno a questa grande torre, costruì un nuovo castello più
grande e più difendibile del Castellaccio bizantino sopra il colle delle
Timpe.
Infatti, se si facesse il raffronto fra le mura
del vecchio castello bizantino, del quale permangono ancora alcuni spezzoni, e
quelle del nuovo castello costruito da Tommaso II ci si accorgerebbe subito che
quest’ultime sono di gran lunga più robuste e più alte; come pure la torre
centrale del Castellaccio presenta mura e altezza di molto inferiore alla torre
normanna, adattata dal d'Aquino come
mastio
del nuovo castello.
Contemporaneamente, fu costruita anche la nuova
chiesa vescovile nelle immediate adiacenze delle mura esterne del nuovo
castello, probabilmente dove si trovava il vecchio convento bizantino di s.
Michele Arcangelo, forse ormai in decadenza per la privazione dei suoi beni a
favore della chiesa di Mileto.
Spostati i centri del potere amministrativo ed
ecclesiastico, si modificò anche l’edilizia del paese. Si iniziarono a costruire
abitazioni nelle attuali vie Castello e s. Nicola, mentre la via Grecìa -
il cui inizio (da via Murate) era abitato dagli ebrei - andò infoltendosi
con nuove case.
La chiesa vescovile, quindi, cambiò luogo ancora
una volta e definitivamente.
Ovviamente, la struttura architettonica della
chiesa non è quella del 1331 perché, nel corso dei secoli, ha subito numerosi
rifacimenti.
Le condizioni della diocesi e, quindi, anche
quelle della chiesa cattedrale, incominciano ad essere descritte dalle
Relationes ad Limina che i vescovi erano tenuti a compilare ogni tre anni.
Naturalmente, le rendite della mensa
vescovile riflettevano quelle più in generale l’economia del paese, il quale
fino ai primi anni del 1500 - secondo un riferimento del vescovo Antonio
Lauro - “florebat civium nobilitate, multitudinem, et frugum abundantia”.
Ma dopo il primo trentennio del secolo, l’andamento economico del paese, che
fino allora aveva goduto di una certa prosperità, iniziò a precipitare
inesorabilmente, riflettendosi anche sui redditi della mensa la quale, a sua
volta, influì sullo stato della cattedrale in maniera abbastanza negativa.
Nel 1532 vi fu un terremoto che se non fece
crollare l’edificio, ne minò certamente le strutture. Infatti, nel 1542,
risultava “penitus collapsa”,
certamente per un terremoto o incendio, tanto che il papa Paolo III, il 12
settembre dello stesso anno, proprio nella festa di s. Michele, concedeva
l’indulgenza di un giorno ai visitatori e a coloro che avrebbero contribuito a
risollevarla.
Nella prima relazione della diocesi, a firma del
vescovo Orazio Schipani (1591-1596) e nominato vescovo di Belcastro l’1 novembre
1591,
è riferito che le entrate della cattedrale ammontavano a ducati 800 l’anno.
La chiesa aveva quattro dignità capitolari che erano il decanato, il cantorato,
l’arcidiaconato e il tesorierato, tutti prebendati. Accanto alle dignità vi era
anche la prebenda teologale o penitenzerìa, la quale aveva pochi ducati
d’entrata. Per le altre chiese del paese - delle quali il vescovo non cita
i nomi - vi erano altri quattro canonici prebendati con annui ducati 10.
Vi erano, infine altri 25 preti non prebendati.
La chiesa vescovile, quindi, aveva un reddito abbastanza basso, ma fu dotata da
monsignor Schipani di alcune reliquie, provenienti dalla basilica di vaticana e
consegnategli a Roma dal duca di Mantova Vincenzo I Gonzaga, su mandato del
cardinale di s. Maria in Cosmedin, Ascanio Colonna.
Il vescovo, inoltre, evidenziava anche il basso profilo culturale del canonici
“dei quali nessuno v’è che sia doctore”.
Nella chiesa, inoltre, i “beneficia simplicia nulla sunt nisi duo de patronatus
exigui valoris”.
Ma le condizioni del paese, sia per le calamità
naturali che in quegli anni si erano abbattute con una certa frequenza
sia per la cattiva amministrazione dei suoi feudatari, peggioravano sempre più e
con esso anche quelle della cattedrale. La decadenza della diocesi era
aggravata, oltre che dalle calamità naturali e dalle ristrettezze economiche,
anche dalla mancata presenza dei vescovi che spesso risiedevano a Roma o Napoli
o nei loro luoghi di origine, anche per lunghi periodi dell’anno, lasciando così
la loro sede diocesana in completo stato di abbandono. La lontananza del
vescovo, poi, favoriva l’usurpazione dei beni della mensa vescovile
che in tal modo si impoveriva sempre più e le conseguenze si ripercuotevano
inesorabilmente sulla stato della cattedrale. Questa situazione di malessere,
oltre ad essere evidenziata in quasi tutte le Relationes, è
significativamente dimostrata dal continuo susseguirsi dei vescovi che, appena
potevano, optavano per un’altra sede: dal 1595 al 1615 si registrarono ben sette
vescovi, il che lascia immaginare la scarsa volontà dei prelati a voler restare
nella diocesi belcastrese, eccetto pochissimi che ressero il seggio vescovile
per diversi anni.
Il vescovo Antonio Lauro (1599-1608) patrizio di
Tropea, nella sua relazione del 1603, descriveva la stato di tenuità della
diocesi e riferiva che la chiesa “non habet Seminarium propter tenuitatem
redditum” e che a mala pena poteva “parvam familiam cum ipsius indignitate
sostentare”. Il vescovo, inoltre, riferiva di aver nominato un maestro in modo
che “possit pro fuggienda crassa ignorantia” dei chierici istruirli.
Alla morte di monsignor Lauro, avvenuta nel 1609,
il seggio vescovile rimase vacante per ben due anni ed una delle ragioni di
questa vacanza, come di altre ancora, fu sempre lo scarso reddito della mensa,
per la quale molti vescovi, adducendo motivi vari, mostravano di preferire sedi
migliori.
Le sorti della chiesa si risollevarono un pò con
la nomina del vescovo emerito Gerolamo Ricciulli (1616-1626) patrizio reggino ma
originario di Rogliano Calabro, avvenuta il 5 dicembre 1616. “Doctissimus juris
consultus”, il nuovo vescovo era stato gran lettore di canoni a Roma, oltre che
apprezzato personaggio in molte accademie letterarie della capitale. Appena
preso possesso della diocesi, rivendicò alcuni beni della chiesa usurpati dalla
famiglia Sersale e restaurò dapprima la cattedrale nelle pareti, nel tetto e nel
pavimento. Ne riparò anche la scalinata di accesso, fece rifare il bastone
pastorale, il piviale e due pianete di seta, oltre a fornire di suppellettili di
legno l’altare. Fece costruire anche il coro ligneo - che ancora si
conserva nella cattedrale - e il sacello per la statua di s. Michele, la
porta maggiore fu rifatta in maniera artistica, riparò il soffitto ligneo, e
acquistò e preparò il materiale sia per ricostruire la sacrestia in forma più
ampia ed in un luogo migliore
sia per rifare l’altare maggiore.
Nel 1634 il sindaco dei nobili della città collocò
- come riferiva il vescovo del tempo Bartolomeo Gizio (1633-1639) - un
nuovo sedile per il magistrato cittadino ed il papa Urbano VIII l’anno dopo
diede la possibilità alla chiesa di impiegare i proventi delle pene per
l’acquisto delle cose sacre necessarie, che verosimilmente erano andate
distrutte o danneggiate durante il terremoto.
La relazione è comunque, è importante perché ci
riferisce che, nel mese di ottobre dell’anno precedente, d’accordo con il
capitolo vescovile, fu decisa l’istituzione del seminario.
In una relazione del vescovo Gizio (1633-1639),
datata 11 dicembre 1636, viene riportata l’ultimazione del seminario al mese
di ottobre del 1635,
dove un “Praeceptor Grammaticae” insegnava ai primi quattro chierici della
diocesi. Il prelato dichiarava che per la sua costruzione erano stati spesi
centotrenta ducati, oltre le “elemosine” dei fedeli; mentre per il suo
sostentamento la mensa vescovile impegnava trentacinque ducati l’anno e, per il
prosieguo, si riprometteva di nominare anche un “Praeceptor cantus”. Il vescovo
faceva notare pure che aveva chiesto alle dignità prebendate, le cui entrate
erano di per sé misere, di integrare con proprie offerte - con cadenza il
15 ottobre, 15 febbraio e 15 luglio - al mantenimento del seminario.
La relazione, poi, accenna a due contenziosi che
la cattedrale aveva in merito al pagamento delle decime.
La prima lite era sorta con la mensa vescovile di
Catanzaro la quale pretendeva la decima del pascolo - consistente in un
tomolo di frumento per ogni paia di buoi - da alcuni pastori casentini i
quali, secondo la tesi della mensa catanzarese, pascolavano in territorio di
Cropani la cui parrocchia faceva parte della diocesi di Catanzaro. Il vescovo
Gizio, invece, sosteneva che le mandrie si trovavano in territorio di Belcastro
e, quindi, ne reclamava le decime. Come andò a finire la questione non ci è dato
sapere.
Il secondo contenzioso fu con il catanzarese
Cesare Marincola che aveva in fitto il fondo di Magliacane, di proprietà del
convento di S. Stefano del Bosco (Serra S. Bruno). Il Marincola riteneva di
dover pagare le decime al monastero, mentre il vescovo Gizio faceva presente
che, trovandosi Magliacane in territorio di Belcastro, il pagamento doveva
essere effettuato alla sua mensa. Della questione ne fu investito il Nunzio
apostolico di Napoli il quale riconobbe al prelato belcastrese il diritto alle
decime, pena la scomunica del Marincola.
Ma i guai della chiesa cattedrale di Belcastro non
erano ancora finiti, anzi peggiorarono ancora di più.
Nel 1638 un terremoto colpì il paese provocandovi
seri danni, anche se non causò vittime; ma un altro più forte e più calamitoso
si verificò nel 1645 ed i suoi effetti - specie sul paese - sono
descritti nella seconda relazione del vescovo Francesco de Napoli (1639-1652),
datata 1 dicembre dello stesso anno.
Egli riferisce che, sebbene un tempo la chiesa
fosse “in media Urbe sita”, al momento della relazione si trovava “extra Urbem
posita”.
Ciò ci induce a pensare che l’evento sismico aveva
completamente distrutto le due strade di accesso alla chiesa che erano la via
Grecia e la via Castello,
isolando la chiesa dal paese, anche se essa non subì danni irreparabili. Il
fatto che il vescovo, però, riferisse che la chiesa rimase isolata significa
sicuramente che la via Grecìa si era trasformata in un cumulo di rovine. Oltre
al loro crollo, le case erano state investite anche dallo smottamento del
terreno soprastante e dalla conseguente caduta dei massi del castello, rendendo
il popoloso rione un luogo di macerie e costringendo gli abitanti a trovare in
altra parte del paese una propria sistemazione. Con lo spopolamento del rione,
la chiesa situata alla sommità della strada rimase perciò isolata.
Comunque, sebbene percossa dal terremoto, lo stato
generale dell’edificio “nullam appetit restaurationem”, segno che la violenza
del sisma non causò gravi danni alla struttura. Il coro, però, nella sua parte
superiore era crollato in molte parti
e riparato in maniera grossolana. Il prelato continua la sua relazione dicendo
che fece riparare il coro in maniera più gradevole, fornendolo di statue e scudi
scolpiti
in ogni parte ed aprendo nella parete di fondo una “magnificam fenestram”,
tuttora esistente.
La cappella del
ss.
Sacramento, però, era in pessimo stato, anche se la cupola era stata
costruita con maestria con pietre del luogo, piccole e lucide: con le offerte
dei fedeli, che ammontavano a 30 ducati, riparò la volta e fece restaurare il
pavimento della cappella, dotandola pure di statue e di due pitture murali.
Acquistò ogni ornamento necessario alla chiesa e
precisamente tre pianete di seta di vari colori, tovaglie di altare riccamente
ricamate, una sopraveste (amidicum) e un cingolo, quattro messali, sei
corporali,
venti purificatoi,
veli e pallii. Fece costruire anche la stalla vescovile e quella dei
canonici.
Il documento di monsignor De Napoli, inoltre,
riferisce che nella chiesa si trovavano un’immagine di Cristo crocefisso ed
un’altra di s. Michele arcangelo finemente lavorate in argento; vi erano anche
quattro calici con piatti dorati e paramenti del pontificale usurati dal tempo.
Il rapporto vescovile continua la sua annotazione
affermando che il fonte battesimale si trovava sul lato sinistro della chiesa,
mentre davanti la cappella della ss. Eucaristia
vi erano varie sepolture e così pure davanti l’altare maggiore. L’unico organo
esistente era difettoso, mentre il campanile era dotato di tre campane, delle
quali la maggiore, acquistata per mille sesterzi, era lesionata. Nella chiesa vi
erano tre cappelle laiche: la prima era quella del ss. Sacramento,
sotto il patronato della famiglia D’Orso con un reddito annuo di 30 ducati,
della quale però ci è sconosciuto il carico delle messe; la seconda sotto il
titolo del ss. Sangue di Cristo, con patronato della famiglia Ballatore,
anch’essa con reddito annuo di 30 ducati e un carico di tre messe settimanali e
la terza, sotto il titolo del ss. Salvatore, era sotto il patronato delle
“Anime dei Morti”, cioè di tutti i fedeli che chiedevano la celebrazione delle
messe per i propri defunti, ed aveva un reddito annuo di 10 ducati.
Ma la situazione economica della mensa non
accennava a migliorare perché “vero temporibus cum Provincia Calabria
terremotis, aliisque oneribus regijs ogent, et animalibus vacet, nec non maxima
pauperitate praematur, territori magna pars inculta remanent, et in locos
covertitur”: essa ammontava appena a 600 ducati.
Se il terremoto non aveva arrecato danni irreparabili alla chiesa, aveva
distrutto gran parte degli edifici abitativi e prostrato l’economia del paese i
cui terreni rimanevano incolti per mancanza di manodopera e per la moria degli
animali, per l’epidemia che ne conseguì e i pesanti fardelli imposti dal governo
regio.
Nonostante ciò, la devozione dei fedeli si
dimostrò sempre maggiore. Una relazione del vescovo napoletano Carlo Sgombrino
(1652-1672) del 1659
riferisce che nella chiesa cattedrale vi erano quattro giuspatronati: il ss.
Sangue di Cristo, della famiglia Ballatore, con 26 ducati annui; del ss.
Crocefisso con 20 ducati; mentre la vecchia cappellania del ss. Salvatore era
stata mutata nella cappella di s. Paolo e in quella di s. Gregorio, sempre sotto
il patronato delle “Anime dei Morti”, delle quali però non è riportato l’annuo
reddito. Il seminario, inoltre, aveva un proprio reddito di ducati 25, al quale
andavano ad aggiungersi i redditi dei due conventi soppressi che ammontavano a
ducati 60.
I vari vescovi che si susseguirono al seggio
vescovile di Belcastro
tentarono di risollevare le condizioni della chiesa ma, o per negligenza o per
impotenza o per scarso attaccamento, non ottennero risultati soddisfacenti.
Toccò al vescovo Giovanni Emblaviti di Bova
(1688-1722) cercare di tirare su le sorti della cattedrale. Già dopo il
primo anno del suo presulato un altro terribile terremoto aveva colpito
nuovamente Belcastro facendo crollare il seminario e causando seri danni alla
cattedrale. Infatti il vescovo, nella sua relazione del 19 agosto 1692,
scriveva che il
seminario
“erat dirutum et inabitabile” per cui molti seminaristi furono costretti a
frequentare quello di Catanzaro. Egli stesso fu costretto a prendere alloggio
nell’ex
convento
di s. Francesco perché il palazzo vescovile risultava anch’esso
crollato.
Con i tenui proventi della mensa vescovile
- che quell’anno aveva fruttato una rendita di appena 460 ducati, dei quali 120
erano stati spesi per l’acquisto di suppellettili e paramenti della cattedrale -
e l’esenzione dell’invio alla curia romana delle quote delle decime il vescovo
cercò di riparare i guasti causati dal terremoto.
Egli riferiva anche che, poiché la strada che
conduceva alla cattedrale era diventata un viottolo angusto e pericoloso per la
caduta di nuovi massi e l’accumularsi di nuove macerie su quelle del terremoto
del 1645 che ancora vi persistevano,
fece costruire una “novam viam planam”.
Dato che le due strade che allora conducevano alla cattedrale erano la via
Grecìa e la via Castello, è da presumere che la nuova strada fatta costruire dal
vescovo Emblaviti sia stata quella che oggi da piazza Lamia porta appunto alla
cattedrale, cioè via Vescovado, che in effetti rispetto alla pendenza delle due
vecchie strade è meno accentuata. Inoltre, riparò il seminario con 350 ducati
offerti dal cavaliere gerosolimitano Eufemio Barulato, cappellano della chiesa
di s. Giovanni Battista.
Il vescovo riportava, poi, che nella cattedrale vi
erano 5 cappelle o altari ed era stata riattivata nella chiesa anche la
confraternita (congrega) del ss. Rosario
che andava ad aggiungersi a quelle di altre chiese.
Nonostante gli sforzi profusi dal vescovo
Emblaviti, il suo successore monsignor Angelo Gentile (1722-1729), trovò una
situazione disastrata: sia la chiesa che il palazzo vescovile erano ridotti a
ruderi.
Il vescovo però non instaurò buoni rapporti sia con il feudatario Alfonso Poerio
sia con il suo clero. La rivendicazione di alcuni beni lo fecero entrare in
conflitto con il barone che, ovviamente, gli rifiutò ogni collaborazione per il
restauro della chiesa e del palazzo vescovile. Così pure venne in contrasto sia
con il capitolo sia con i padri cappuccini del convento di s. Francesco, tanto
che si rese necessario un arbitrato del vescovo di Oppido, monsignore
Perrimezzi, il quale per appianare le due questioni impiegò ben trenta giorni.
Nonostante le incomprensioni ed i litigi, il
vescovo riuscì a riparare il campanile e a rifare il coro della chiesa con i
pochi fondi rimasti nel “Mons Puellarum”,
per la “mala administratione Procuratorum”.
Ma i cattivi rapporti fra il vescovo e il clero si
riaccesero nuovamente nel 1746, sotto il presulato di Giovan Battista Capuani
(1729-1751), successore di Anglo Gentile.
Già nel 1731 il vescovo era venuto in urto con la
famiglia Jazzolino - che era una delle più ragguardevoli del paese e
godeva del sostegno indiretto del barone Alfonso Poerio - per aver fatto
arrestare dal tribunale ecclesiastico un chierico appartenente a questa
famiglia. La situazione divenne tale che lo stesso vescovo, durante la
processione del Corpus Domini, fu minacciato pubblicamente con la pistola in
pugno dai fratelli del chierico. Di fronte a tale affronto e all’inerzia
dell’ordine civico il vescovo decise di andare ad abitare a Andali. Inoltre,
gran parte del clero, non avendo gradito la decisione di monsignor Capuani e
forse sentendosi abbandonato, solidarizzò con il chierico arrestato, per cui
subentrò una situazione confusa e molto tesa. La questione venne affrontata nel
1746, dal papa che inviò a Belcastro il vescovo di Squillace Marco Antonio
Annaffi per aprire l’inchiesta e risolvere la situazione. Ma il vescovo
squillacese, o perché le parti non recedevano dai loro propositi o perché non
seppe imporsi data la sua tarda età, non riuscì nel suo intento anche perché fu
colto dalla morte nel 1747. L’inchiesta fu proseguita dal suo successore,
monsignor Francesco Saverio Maria di Queralt e Aragona il quale, certamente per
il suo alto lignaggio e per la sua forte personalità, riuscì a risolvere la
complicata e difficile missione, riconducendo all’obbedienza sia il clero che la
popolazione e riconsacrando nuovamente la cattedrale al culto.
Morto monsignor Capuani, gli successe il
salernitano Giacobbe Guacci (1752-1755) che nei circa tre anni del suo presulato
risedette ben poco a Belcastro. Il suo successore, Tommaso Fabiani (1755-1778)
di San Pietro a Maida, rifece l’altare maggiore ed alzò la volta della cappella,
oltre a rifare nuovamente il coro.
Ma i guai della cattedrale ritornarono ancora una
volta con il terremoto del 1783 che, pur non causando vittime, arrecò danni al
paese e quindi alla chiesa, vanificando il lavoro del vescovo Fabiani. Infatti,
a tre anni dal sisma, il vicario capitolare monsignor Bruno Cirillo lamentava lo
stato di rovina ed abbandono della chiesa: la facciata anteriore dell’edificio
presentava delle crepe laterali che la distaccavano dai muri laterali, il
campanile era rimasto in gran parte lesionato ed il seminario crollato quasi del
tutto.
Soltanto nel 1787 il Supremo Consiglio delle Finanze Reali di Napoli chiedeva
alla Giunta di Corrispondenza Catanzaro di monitorare e periziare gli edifici
religiosi colpiti dal sisma ed avviare le gare di appalto per il restauro. Alla
Giunta di Catanzaro, che per Belcastro chiedeva quali fossero i danni della
chiesa, il vicario capitolare rispondeva che l’episcopio, là dove non si era
potuto intervenire negli anni 1783-1787,
risentiva dell’abbandono in cui era stato lasciato per dieci anni, mentre della
cattedrale era “lesa nel muro anteriore e il suo campanile, son quasi rovinati i
di lei tetti cosicché scolano le acque in detta chiesa e infracidano il legname”.
Così scriveva l’Ufficiale Commissionato Giacinto Ceniti a proposito della
cattedrale: “quella chiesa Cattedrale sta per rovinare nei tetti e nelle
intempiate scorrendo acqua dappertutto in maniera che il Popolo, i Canonici, e
gli altri del Clero stian soffrendo dei gravissimi incomodi, che nella sagrestia
si bagnano tutte le sacre suppellettili”.
La Giunta di Catanzaro incaricò l’ingegnere Claudio Rocchi a redigere le perizie
preliminari necessarie per definire i lavori di ricostruzione sia della chiesa
che dell’episcopio e del seminario, ma tali lavori si trascinarono per lungo
tempo anche perché, fra l’altro, l’amministrazione dei fondi della Cassa Sacra
risultò alquanto complessa e a volte poco chiara: infatti, nel 1791, erano stati
eseguiti soltanto i lavori di copertura delle navate e la pavimentazione.
Restavano ancora da restaurare la facciata centrale ed i lavori di rifinitura
interni. Incaricato di eseguire una seconda perizia dei danni non ancora
riparati fu il mastro muratore Carmine Gentile di Andali il quale, il 3 novembre
1793, nel suo resoconto evidenziava il persistere del pericolo della facciata
anteriore, di cui una parte era crollata e la restante risultava staccata ancora
dai muri laterali.
È il caso di dire, però, che il completo stato di
abbandono e degrado della cattedrale in quel periodo, oltre alle calamità
naturali, alle ristrettezze della mensa e alle lungaggini burocratiche della
Giunta, fu dovuto anche alla lunga vacanza intercorsa dalla morte di monsignor
Fabiani (1778) alla nomina di monsignor Vincenzo Greco (1792-1805) di Crotone,
durata per ben quattordici anni, pur se dal 1785 al 1792 vi era stata la nomina
di monsignor Francesco Ganini di Gioia Tauro che non fu quasi mai presente in
sede sia per gli avvenimenti calamitosi del tempo e la precarietà della chiesa
sia anche per la sua scarsa propensione a recarsi a Belcastro.
Con la nomina del vescovo Vincenzo Greco (1792) le
cose incominciarono a prendere il verso giusto. Il presule, preso possesso della
sede, seguì personalmente l’andamento dei lavori che finalmente furono portati a
termine. L’illuminazione della navata centrale fu migliorata con l’apertura di
altre due finestre nelle due pareti in alto, le cabriate del tetto furono
coperte da un soffitto ligneo sul quale fu dipinta la vita di s. Tommaso
d'Aquino,
fu eretto un nuovo altare maggiore, rifinita la cappella del ss. Sacramento,
restaurati gli stalli lignei ed eseguite tutte le altre piccole riparazioni atte
a rendere pienamente fruibile al culto l’edificio.
Ma se la cattedrale, dopo anni di abbandono e
degrado, era stata riportata alla sua piena funzionalità, non fu così per il
seminario ed il palazzo vescovile.
Quest’ultimo - come si rileva dalla perizia
dell’ingegnere Pietro Antonio Rocchi datata 31 marzo 1792
- era costruito su due livelli, dentro le mura del diroccato castello, al
lato sinistro della chiesa e ad essa direttamente collegato attraverso un
“passetto”
coperto e sopraelevato che immetteva direttamente nella cattedrale e del quale
oggi rimane soltanto l’arco
di sostegno.
Il primo livello dell’edificio, che fungeva da
abitazione del vescovo, era costituito da tre vani e da un loggiato che si
affacciava verso la facciata anteriore della chiesa e sulla sottostante via
Grecìa. Il secondo livello comprendeva cinque vani ed un altro loggiato e
costituiva l’abitazione del vicario capitolare e la cancelleria vescovile. A
fianco vi erano poi le abitazioni della servitù e i locali di servizio.
Il palazzo vescovile però non fu mai ricostruito
perché, come risulta da una documentazione della Regia Udienza di Catanzaro, il
vescovo e la sua curia furono ospitati, almeno fino al 1796, nel palazzo
baronale della famiglia Poerio.
Probabilmente l’edificio non fu riedificato per
mancanza di fondi e per la morte di monsignor Greco (1806), alla quale seguì una
lunga vacanza durata fino al 1818,
anno in cui fu abolito il vescovado.
Un’altra ragione potrebbe essere stata quella che
sin dall’inizio del 1800 era nell’aria il varo della riforma ecclesiastica che
si concretizzò, poi, con il Concordato tra Pio VII e Ferdinando I di Borbone nel
1816 e con il quale venivano aboliti i vescovadi di piccola entità come quello
di Belcastro.
Per tal motivo, forse, non si ritenne utile
ricostruire il palazzo vescovile ed il seminario, dato che non ce ne
sarebbe stato più bisogno: oggi rimangono soltanto i pochissimi ruderi del
seminario, mentre del palazzo vescovile soltanto una piccola parte di
pavimentazione, di fronte il “passetto” e, con lavori di scavi, potrebbero
affiorare le sue fondamenta..
I
maggiori proventi, come detto prima, venivano “ex venditione herbaggij”,
perché la carenza di manodopera - la popolazione era di 1.327 abitanti
- aveva condizionato in negativo il regolare sfruttamento dei terreni,
la cui maggior parte era rimasta incolta e perciò destinata alla vendita del
semplice erbaggio.
Sebbene fossero trascorsi 47 anni dal nefasto terremoto, la ricostruzione
della via Grecìa non era stata possibile per altre calamità che si
susseguirono al sisma: nel 1673 vi fu la peste bubbonica che causò più
vittime del terremoto, con la morte di 300 persone. Il vescovo del tempo
Carlo Gargano in maniera realmente tragica descrive la disperazione dei
cittadini di Belcastro “ubi morbum epidemicum talem inveni, qui tercentum
circiter personas ingredi viam universam carnis effecit, hic gemebat, ille
eiulabat, alius praesentis morbis oppressus timore languebat, ossa tremabat,
et quod miserandum, talem enim morbum diva fames ob annonem penuriam
crudelitatem, qui alter exitiali febre peribat: vera Dei indignatio!”. I
trecento decessi spopolarono il paese, causando un calo verticale della
produzione e quindi dell’economia. Il vescovo riferiva che di tale decadenza
ne risentirono anche gli edifici, sia civili sia religiosi che caddero in
uno stato di totale abbandono: cfr. ASV, SCC, Relationes ad Limina,
Belcastro, a. 1673.
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