DAL NOSTRO
INVIATO
GIAMPAOLO
VISETTI SAN
NICOLA DI
CAULONIA
(Reggio
Calabria) Lo
Jonio, sotto
il sole,
sembra vino.
Per le
olive, in
Aspromonte,
bisogna
aspettare.
Oggi, qui, è
ancora
estate. La
casa di
Antonietta
Timpano
però,
invisibile
tra i
cotogni,
alle sei
resta
sepolta
sotto una
coperta di
notte. I
suoi tre
bambini, per
la prima
volta,
ascoltano
questo
silenzio del
mattino.
Salgono
sulla
corriera,
ferma in
mezzo alla
piazza.
Un’ora di
curve e di
buche, fino
alla costa.
Un’altra,
prima che il
campanello
apra la
classe dove
ieri sono
stati
trasferiti
da un fax.
Il paese è
deserto. In
agosto il
fuoco,
partito
dalla
fiumara
seccata, ha
bruciato
l’ultimo
bosco. Da
allora il
telefono non
prende e la
Posta è
chiusa.
Qualcuno, a
San Nicola,
ha devastato
la vecchia
scuola. In
giugno un
paio di
operai
avevano
montato il
riscaldamento,
un’antenna
satellitare.
Poi alla
maestra
hanno detto
due parole:
«Chiuso,
trasferita».
I vetri, al
primo piano,
sono
spaccati.
Banchi e
cattedre
rovesciate.
Tra mucchi
di libri e
registri,
due urne
piene di
schede delle
ultime
elezioni
comunali.
Sulla
strada,
davanti al
campetto da
calcio
divorato da
erbe gialle,
il triangolo
di
“attenzione
scolari” è
stato
ripiantato
al
contrario.
Il vertice
ora affonda
in un tronco
di fico
d’India.
«Eravamo
cinquemila —
dice
Antonietta —
siamo
trecento.
Non abbiamo
più un santo
protettore.
La scuola è
finita a
Pezzolo». È
la frazione
a monte.
Cento
vecchi.
L’aula è
nella casa
grigia di
Maria Manno.
Sembra
crollare.
Una
cameretta
con
l’intonaco
sul
pavimento.
Di là, una
turca. Un
affitto più
confortevole,
per
trent’anni.
«Qualcuno a
Roma — dice
la maestra
Polsia —
deve
assumersi la
responsabilità
di
abbandonare
anche un
solo
bambino».
Questa
elementare,
in Calabria,
si salva.
Una
distrazione.
Perché la
terra con
l’istruzione
peggiore
d’Europa,
dove
l’ndrangheta
fattura ogni
anno 60
miliardi di
euro, ha
deciso di
chiudere la
scuola. «Un
etnocidio —
dice il
sociologo
Tonino Perna
— una
civiltà
condannata
per ordine
di Stato.
L’ultima
deportazione
della gente
di
montagna».
La riforma
annunciata,
in queste
ore,
chiarisce il
suo profilo.
Tagliare
alla scuola
italiana 8
miliardi di
euro in tre
anni,
affidandosi
a
statistiche
che ignorano
la
geografia,
significa
precludere
al Meridione
ogni
possibilità
di riscatto.
Tra la Sila
e la
Locride,
epicentro
del rigore
sull’istruzione,
saranno
chiusi 213
centri
scolastici:
uno su tre.
SEGUE NELLE
PAGINE
SUCCESSIVE
(segue dalla
copertina)
Dal prossimo
autunno
perderanno
il posto
2613
insegnanti
di ruolo e
1526
supplenti. A
rischio 918
asili, 680
elementari,
238 medie e
89
superiori.
Su 2712
scuole, 1925
saranno
considerate
“sottodimensionate”.
Ogni mattina
197 mila
alunni su
314 mila
dovranno
percorrere
almeno venti
chilometri,
nelle valli,
prima di
entrare in
un’aula.
Emigranti a
quattro
anni. Il Sud
assorbirà il
50% dei
tagli decisi
dal governo.
La regione
con il più
alto
abbandono
scolastico
del
continente,
dove 354
Comuni su
409 sono a
rischio
spopolamento
e 8 sono già
abbandonati,
vede lo
spettro di
un deserto
regalato
all’ndrangheta.
La Calabria,
2% del pil
nazionale,
si sente
punita per
la propria
storica
povertà. Un
inedito e
stupefacente
vento di
rivolta la
scuote.
Valanghe di
ricorsi,
presentati
da sindaci,
insegnanti e
genitori,
sommergono i
tribunali.
Mamme,
professori e
studenti,
occupano le
classi e si
preparano
allo
sciopero. I
segretari
comunali, al
tramonto,
vanno a
caccia di
alunni nei
villaggi
confinanti.
Si combatte
per un solo
studente,
vero o
falso. Può
salvare una
scuola, una
maestra. Un
ambulatorio
medico. La
confusione,
al mattino,
scatena il
caos.
Accorpamenti,
chiusure e
supplenze
cancellate
dal governo
Prodi,
anticipano
il disarmo
pianificato
da
Berlusconi.
Un
imprevedibile
futuro di
crisi.
«Opporsi a
qualsiasi
cambiamento
— dice
l’antropologo
Vito Teti —
è il vizio
fatale del
Sud. Questa
volta però
non è in
gioco la
modernizzazione
della
scuola, ma
la sua
sopravvivenza
sul
territorio.
Sradicare
l’istruzione
da aree
vastissime,
in base a
furie
burocratiche,
equivale a
svuotare la
Calabria
dall’interno.
Un errore
irreversibile.
Cancella
centinaia di
paesi e
respinge il
Meridione
nell’Ottocento:
ostaggio
della
propria
ignoranza ».
Dietro venti
bambini,
qui, ci sono
borghi di
mille
persone.
Attorno a
questi si
aprono
foreste e
campagne da
tremila
ettari.
Pascoli,
sorgenti,
montagne.
«Se le
famiglie
giovani se
ne vanno —
dice il
sindaco di
Canolo,
Silvio La
Rosa — non
ci resta che
tagliare i
boschi.
Siamo
rimasti per
evitare che
i versanti
franino.
Come
ricompensa,
poiché siamo
pochi, ci
tolgono
tutto». Una
scuola e una
maestra,
nelle Serre,
non sono
solo
l’ultimo
segno dello
Stato. Sono
la
condizione
per una
presenza
umana
organizzata.
«Portano gli
unici libri
del paese —
dice
l’economista
Domenico
Cersosimo —
gli unici
computer. Le
famiglie, in
classe, si
incontrano e
parlano.
Resta aperto
il bar, un
alimentari,
a volte una
farmacia e
l’ufficio
postale. Lo
Stato è
costretto a
garantire
una strada,
il trasporto
pubblico.
Chiudere le
piccole
scuole, al
Sud,
equivale ad
abbandonare
una parte
essenziale
della
nazione,
milioni di
persone. È
ora che
l’Italia si
chieda quale
sia il
valore più
profondo
dell’istruzione
diffusa: e
che il
Parlamento
apra con
chiarezza
alla gente
la propria
agenda».
Negli Usa,
come in
Francia, in
Spagna e in
Germania,
l’hanno
capito da
anni. Il
mondo rurale
torna a
vivere. La
tecnologia
garantisce
il
decentramento
dell’eccellenza
educativa.
La qualità,
la piccola
dimensione
distribuita
con
equilibrio,
salvano dal
crollo della
quantità e
del
gigantismo
produttivo
accentrato.
«La scuola —
dice
l’etnologo
Luigi Maria
Lombardi
Satriani —
non va
chiusa, ma
migliorata.
Togliere
maestri e
professori
fa
risparmiare
oggi, ma
impoverisce
e costa di
più domani.
La Calabria,
tutto il
Sud, hanno
bisogno di
investimenti,
non di
tagli.
Servono
strade,
collegamenti
che
garantiscano
a tutti e
ovunque una
vita
scolastica
piena. Per
questo la
riforma
annunciata
pone lo
Stato fuori
dalla
Costituzione:
non offre
pari
opportunità
formative,
favorisce i
ricchi e
condanna i
poveri».
Vivere una
settimana
nelle classi
calabresi di
periferia,
permette di
scorgere il
volto di un
Paese
privatizzato,
ostaggio
delle
scadenze
elettorali.
Una nazione
che fa
scontare
all’istruzione
la propria
crisi. Solo
nelle città
le scuole
sono scuole.
Fuori, con
le ovvie
eccezioni,
una rovina.
A Locri
l’istituto
alberghiero,
800 allievi,
è sistemato
in
appartamenti
affittati ai
potenti del
posto. A
Natile,
frazione di
Careri, 310
alunni non
sono mai
entrati
nell’aula
computer,
gelida e
chiusa a
chiave. A
San Luca,
culla della
strage di
Duisburg, le
elementari
ricordano un
cantiere
abbandonato.
Alle medie
stanno
montando i
vetri alle
finestre,
rotti a
sassate per
la seconda
volta in una
settimana.
Sulla strada
aspettano
macchie di
fuoristrada
neri. A San
Pantaleo la
ginnastica
si fa in
piedi, fermi
davanti al
banco. Sul
tetto, da
anni, ci
sono i
pannelli
solari:
nessuno li
ha mai
collegati.
Platì, commi
ssariato per
mafia, è il
comune più
povero
d’Italia.
Dichiara 4
mila euro di
pil annuo
pro capite.
Emilia
Paglia,
preside
della “De
Amicis”, ha
sostituito
la foto del
presidente
della
repubblica
Napolitano
con quella
di “San
Brunetta”.
«Per la
prima volta
— dice — non
passo la
mattina a
cercare
supplenti.
Cinque euro
decurtati
per ogni
giorno di
malattia.
Prego e
ringrazio il
ministro:
ieri gli ho
acceso un
cero
davanti». È
gente
semplice,
indurita
dalle
umiliazioni.
Molti, anche
nella
scuola, sono
complici
della
criminalità.
Emergono
limiti,
imperdonabili
per il
ministro
Gelmini e
per il
circolo
degli
intellettuali
drogati
dalle teorie
della
competitività
economica.
Però ogni
mattina, in
luoghi
ignorati e
lontani,
apre una
scuola. Solo
in queste
aule
squallide,
con le sedie
basse di una
volta, in
Calabria
qualcuno
educa alla
democrazia e
alla
legalità.
Non sono
casi
estremi: è
la regola.
Decine di
scuole
restano
inagibili, a
rischio
crollo,
inaccessibili
ai portatori
di han-
dicap. Il
riscaldamento
è rotto, la
luce non va.
Nelle
classi,
piove. Un
vecchio
computer
spento, non
sempre, in
segreteria.
Non c’è
traccia di
laboratori
linguistici,
collegamenti
internet,
biblioteche,
palestre,
mense,
cortili. Il
tempo
prolungato,
nella
maggioranza
degli
istituti
periferici,
non è mai
iniziato. Le
vie che
conducono
alle scuole
sembrano
piste nel
Caucaso.
Mancano i
soldi per
gli
scuolabus.
Se ci sono,
non si
trovano gli
autisti. I
ragazzi dei
paesi, dopo
mezzogiorno,
sono
prigionieri
in case
vuote dove
parla solo
la tivù. Gli
altri, per
strada.
Nessuno, nel
pomeriggio,
può
riportarli a
scuola, a
fare sport,
o a seguire
altri corsi.
«È questa —
dice
Gianfranco
Trotta,
segretario
regionale
della
Flc-Cgil —
la scuola su
cui l’Italia
ha deciso di
risparmiare.
In Calabria,
un’istruzione
vera non
l’abbiamo
mai avuta.
Lo Stato
licenzia i
docenti
prima di
assumerli e
cancella le
scuole prima
di
costruirle.
Ridicolizza
le maestrine
di paese e
insulta i
professori
meridionali,
invece di
ringraziarli.
Dalla
fabbrica
degli
ignoranti
passiamo a
quella dei
delinquenti».
Un incubo. I
tagli, nel
Meridione,
hanno una
traduzione
comune: il
trionfo
dell’ideologia
mafiosa
sullo Stato
di diritto.
La vittoria
della
precarietà
sulla
fiducia. La
costa jonica
è il simbolo
dello
sfacelo
educativo.
«La prima
occupazione
— dice il
procuratore
antimafia
Nicola
Gratteri — è
il traffico
di cocaina.
La seconda,
l’usura. La
‘ndrangheta
si fonda sul
consenso
popolare,
costruito
con
l’ignoranza
e con
l’esclusione
dalla
conoscenza.
È un momento
buio:
dobbiamo
lottare e
gridare di
più». Lungo
il mare più
solo e
sconosciuto
d’Italia,
chilometri
di scheletri
di cemento.
Oltre le
ferrovia,
sulla
spiaggia,
palazzoni
incompiuti,
cantieri
chiusi,
centri
commerciali
deserti.
Migliaia di
ville con i
mattoni
rotti,
sbarrate e
in vendita.
Su ogni
terreno un
cartello:
«Vendesi,
edificabile».
È uno
squallido
scenario di
guerra,
reduce da
mezzo secolo
di abusi,
sanatorie,
speculazioni.
Alle spalle,
in montagna,
villaggi in
abbandono e
orti tra
ineguagliabili
distese di
vigne,
bergamotti,
fichi,
melograni,
mandarini ed
eucalipti.
Su questo
confine, tra
orrore e
bellezza, si
consuma la
rinuncia
nazionale
all’istruzione,
il
fallimento
della
politica
locale, la
svendita del
territorio
alla
criminalità.
Il commiato
dello Stato
da se
stesso. «La
scuola —
dice
Vincenzo
Linarello,
presidente
del
consorzio
Goel di
Gioiosa — è
l’ultima
vittima del
patto
pubblico tra
‘ndrangheta
e massoneria
occulta. In
Calabria il
segnale è
chiaro:
senza
istruzione i
voti costano
meno, nella
precarietà
il potere
illegale
chiude il
controllo
sugli snodi
della
società. I
giovani
“senza
appartenenza”
assistono
alla
ritirata
dello Stato,
che non
garantisce
più nulla.
Resta solo
lei, la
‘ndrangheta:
che
riconosce
“il
rispetto” e
ti paga uno
stipendio».
A Bosco di
Bovalino il
centro
intitolato a
don Puglisi,
assassinato
dalla mafia
a Palermo,
raccoglie i
ragazzi
dalla
strada.
Molti sono
figli di
carcerati.
Insegna che
una vita
diversa
esiste.
Carolina
Iavazzo, le
altre
volontarie,
dormono in
un container
bianco,
degli
alpini.
Combattono
gravi
ristrettezze.
Vorrebbero
ottenere
l’affido dei
giovani
condannati,
espulsi
dalla
scuola.
Diventare
un’alternativa
alla galera.
Ma la
Calabria è
l’unica
regione
d’Europa a
non avere un
piano di
assistenza
sociale. «Al
Sud — dice
lo scrittore
Carmine
Abate —
serve un
investimento
straordinario
sulla
scuola.
Invece
accade
l’opposto:
si
smantella.
Non è una
follia.
Risponde ad
uno
spaventoso
disegno
razionale
dello Stato,
che si
macchia del
reato di
favoreggiamento
della
criminalità.
Dobbiamo
prendere
atto di un
processo
lucido, che
può
distruggere
la nazione:
appellarsi
al rigore
della
finanza
pubblica per
consegnare i
giovani alle
mafie, in
cambio di
denaro e
consenso».
Un
meccanismo
spietato che
stermina il
talento:
ignorare
l’istruzione
e
militarizzare,
abbattere
scuole e
costruire
caserme. Nel
dopoguerra
chi ha
scelto la
legalità è
stato
costretto ad
emigrare al
Nord, o
all’estero.
Oggi, con il
ricatto
della scuola
e dei
servizi
pubblici
primari
negati, è
obbligato ad
abbandonare
l’interno
per
ammassarsi
sulla costa.
«Così il
mondo dei
piccoli —
dice il
vescovo di
Campobasso
Giancarlo
Bregantini,
per
venticinque
anni in
Calabria —
si trasforma
in un
appalto e
rende.
Lottizzazioni,
speculazioni
edilizie e
riciclaggio
immobiliare,
diventano la
gabbia dei
nuovi
sradicati.
La scuola
non deve
aver paura
di
migliorarsi:
ma
l’ossessione
economicista,
l’inganno
della
produttività,
non possono
risolversi
nel ritiro
dello Stato
dai propri
doveri.
Riformare
significa
discutere,
coinvolgere,
avere la
pazienza di
analizzare
caso per
caso, di
andare a
conoscere la
realtà. Il
taglio
statistico,
in Calabria,
cela un solo
scopo:
svuotare i
paesi per
regalare
affari alla
‘ndrangheta
e a una
politica
corrotta,
che
controllano
trasporti,
costruzioni,
commercio e
voti». È
sera. Le
fiamme rosse
di un dosso
mostrano
boschi già
inceneriti
attorno.
Oltre la
strada, le
mamme di
Riace Marina
protestano
contro la
chiusura
dell’asilo.
Ha un
significato,
ignorare
l’incendio
che brucia
un’origine
per pensare
a
trentacinque
bambini?
Indica una
relazione,
piuttosto,
un destino.
La bidella,
vestita di
nero, recita
a memoria
poesie
d’amore in
dialetto.
Vuole dire
che nel
borgo
vecchio,
infine, il
riscatto è
arrivato da
questo
mistero
antico.
Quindici
alunni
stranieri,
figli di
quaranta
rifugiati.
Afghani,
curdi,
libanesi,
etiopi,
palestinesi,
bosniaci. Un
povero paese
di emigrati
trasformato
in un centro
di
accoglienza
per
immigrati.
Una
disobbedienza
civile,
esempio
unico e
straordinario.
La scuola,
grazie a
loro, non si
può più
chiudere. La
bidella non
sa dire cosa
sia
l’istruzione.
È
analfabeta.
«Solo una
generosità —
dice però —
salva».